Archive for novembre, 2010

My son, my son, what have ye done di Werner Herzog ( dvd e b-ray )

l detective Havenhurst viene chiamato sulla scena di un crimine. Una donna anziana è stata infilzata con una spada orientale in una casa vicina alla sua abitazione. I sospetti non possono che cadere sul figlio di lei, Brad, che, armato di fucile, afferma di avere con sé due ostaggi. Attraverso le ricostruzioni della fidanzata e di un regista teatrale emerge progressivamente la psicologia del giovane.
Secondo film in Concorso di Werner Herzog a Venezia 66. Due film dello stesso autore nella stessa competizione sono già di per sé un fatto anomalo. Se poi si aggiunge che si tratta del connubio tra Herzog e Lynch che produce il film la cosa si fa ancor più degna di attenzione. Poteva sembrare un’unione contro natura quella tra i due e invece il regista del confronto con il limite e analista acuto del suo possibile superamento si trova assolutamente a suo agio nelle atmosfere lynchiane così apparentemente astratte e invece così radicalmente reali.
In Brad c’è l’Herzog esploratore della sopravvivenza possibile in condizioni estreme che si ritrae all’ultimo momento salvato/perseguitato da un’ossessione religiosa che finisce con il permeare tutta la sua personalità e che gli altri qualificano sbrigativamente come ‘depressione’. Brad ha una madre castratrice (splendidamente interpretata dalla lynchiana Grace Zabriskie) dal cui dominio assoluto non riesce a staccarlo neanche il rapporto con la fidanzata. Al giovane non resta che trovare nel suo rapporto con un Dio interiore e nella catarsi della messa in scena di Eschilo la ‘forza’ per fare ciò di cui la madre gli chiederà conto con le sue ultime parole.
È un film complesso quello di Herzog in cui, ispirandosi a un delitto realmente accaduto, sembra che si tracci una linea di confine tra la ‘razionalità’ (chi sta fuori della casa) e la ‘follia’ di Brad. Ma non è così. Il ragazzo con i suoi fenicotteri rosa (“aquile drag queen” come lui li definisce) cerca di proteggersi da un mondo di cui ha perso le coordinate e in cui un pallone da basket resta in attesa di un bambino di talento che lo trovi per poter dare un significato di libertà alla parola figlio.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

novembre 30, 2010 at 7:35 PM Lascia un commento

Fistful of mercy – As I call you down ( cd – lp )

Un altro supergruppo? Iniziare una recensione con questa domanda succede spesso, e non per colpa del recensore, ma per la quantità di artisti che fanno musica assieme, negli ultimi anni. Adesso tocca ai Fistful of mercy, che sostanzialmente sono una versione moderna di Crosby, Stills & Nash. Si tratta di un trio, formato da Dhani HarrisonBen Harper e Joseph Arthur. Tre artisti con tre storie diverse, forse meno popolari di quanto lo erano i singoli CSN al tempo: Dhani è il figlio di George Harrison, cui assomiglia in maniera impressionante sia fisicamente che vocalmente. Joseph Arthur è un grande cantautore misconosciuto, che venne scoperto da Peter Gabriel, che gli fece incidere i primi dischi per la Real World. Poi si è un po’ perso per strada, pubblicando molto materiale, ottenendo un po’ di visibilità quando i R.E.M. se lo portarono in tour nel 2005, e quando Stipe e i Coldplay duettarono sulla sua “In the sun”. E Ben Harper, beh, è Ben Harper: l’unico che non ha bisogno di presentazioni, almeno da noi.
Il trio assomiglia a CSN anche musicalmente: musica acustica, fatta di armonie vocali e di voci individuali che si amalgamano, e solo a tratti sono riconoscibili. In alcuni momenti capita, quando la voce di Dhani è ben riconoscibile sulla strofa iniziale di “Father’s son”, ed è impossibile non pensare al padre, in tutti i sensi, musicali e non. Forse in generale il più sacrificato dei tre è proprio Ben Harper, almeno in termini vocali – la sua slide invece salta fuori in diversi momenti; Arthur, che pure ha una gran bella voce, invece è quello che risalta di più nell’impasto vocale.
As I call you down” non è un capolavoro o un disco rivoluzionario, è chiaro. Ma non è un divertissment, e lo si capisce anche dal fatto che i tre andranno in tour a dicembre – con passaggio dall’Italia incluso. E’ semplicemente un buon disco di rock acustico, che funziona benissimo soprattutto sulle canzoni-canzoni, come l’eponima “Fistful of mercy” o “Restore me”.

Gianni Sibilla (www.rockol.it)

 

novembre 28, 2010 at 5:57 PM Lascia un commento

Elf Power – Elf Power ( cd – lp )

Non troverete nessuno che riuscirà a parlarvi del nuovo disco degli Elf Power senza parlarvi almeno un po’ di Vic Chesnutt. Sarà pure ingeneroso nei loro confronti, ma non può essere che così. Perché, tanto per cominciare, è proprio al concittadino Chesnutt che la band di Athens ha voluto dedicare il disco, con tanto di dichiarazione d’amore in bella vista sul booklet. E poi perché era proprio con Chesnutt che Andrew Rieger e soci avevano dato alla luce il suo ultimo lavoro, due anni fa. E infine perché gli Elf Power hanno cominciato a registrare questo disco giusto un paio di settimane dopo la morte di Chesnutt. Insomma, si capisce.

Eppure questo disco è quanto di più lontano ci potrebbe essere dal mood del vecchio Vic. Niente malinconici romanzi popolari, niente potenti scariche elettrice di disperazione, nell’aria. “Elf Power”, decima fatica da studio, è la quintessenza degli Elf Power. Ed è un gran bel disco. 

D’altronde, Rieger ha già avuto modo di spiegarlo: quando Chesnutt è morto, lo scorso Natale, i pezzi erano già fatti e finiti. “Ovviamente stavamo tutti pensando a Vic, mentre registravamo, ma era già tutto scritto”. Chissà, forse allora è proprio per paradosso che il disco che è uscito da quelle sessioni di gennaio risulta così luminoso e denso. Non cambia la rotta intrapresa ormai più di dieci anni fa, semmai gli Elf Power dimostrano che le buone frequentazioni in cui si sono intrattenuti nel frattempo sono state capaci di aggiungere qualche carta in più alla loro scorta di assi. Dopotutto, suonare in giro con gente del calibro di Jeff TweedyMichael Stipe, lo stesso Chesnutt, dovrà pure insegnarti qualcosa.

Venendo al punto, non vi sorprenderà sapere che questo disco, come ogni altra cosa uscita dal cilindro degli Elf Power dai tempi di “A Dream In Sound” in qua, suona maledettamente e deliziosamente retrò. Le etichette e i riferimenti che sono stati adoperati per definire la loro musica restano tutti validi, senza alcuna eccezione. Power-pop, psichedelia, post-punk: continuiamo a muoverci su questi territori. Il talento di Rieger, non da oggi, non sta tanto nell’originalità delle sonorità quanto nella qualità dei pezzi. Il ragazzo sa come si scrive una canzone. E non sbaglia un colpo. 

“The Taking Under”, che apre l’album, è una ballata in perfetto stile sixties. Pochi accordi, una batteria su di giri, è il tipo di canzone, per dire, che hanno imparato a fare benissimo gli Okkervil River, senza dubbio anche ascoltando molto gli Elf Power. L’incedere progressivo di “Wander Through” suona fortemente debitore di Arthur Lee – e i Love, insieme ai Big Star, sono forse il modello principale a cui guardare per capire da dove viene la band – mentre “Stranger In The Window” starebbe benissimo in un disco del Robyn Hitchcock meno inquieto. In “Like a Cannonball” ricompare qualche elemento prog, ben contenuto entro gli argini del pop-writing, e, a ben vedere, è proprio in quest’arte del contenere che Rieger sembra dare sempre di più il meglio di sé. “Boots Of Lead” invece è davvero roba alla Big Star, con i suoi mulinelli di chitarra che ti portano lentamente verso un ritornello che non è un ritornello e un assolo che non è un assolo. Senza dubbio tra gli episodi più riusciti. “Spidereggs”, che segna il giro di boa del disco, è un divertissement con un po’ di elettronica e qualche inciso quasi glam, mentre il vero fantasma che riecheggia in “Ghost Of John” è ancora quello di Hitchcock. Poi, dopo il mid-tempo un po’ piatto di “The Concrete And The Walls”, ancora uno scintillante sprigionamento di potenza pop con “Goldmine In The Sun”. “Tiny Insects” corre via veloce ma gradevole, mentre “Little Black Holes” rappresenta un’altra delle vette dell’album. Vagamente epica, fosca come un pezzo degli Rem di “Fables Of The Reconstruction”, ci piace. E c’è qualcosa di piccolo anche nell’ultima canzone, stavolta una mano: “Little Hand” è un gingillo, tutto ricami di flauto e di voce, con cui Rieger e i suoi compari sembrano proprio voler far scorrere i titoli di coda. 

In definitiva, chiunque sia assetato di frontiere inesplorate e nuove stravaganze alchemiche deve bussare ad altre porte, ma chi non abbia da render conto ad alcuna cattiva coscienza e voglia solo continuare ad ascoltare buona musica, innovativa o no che sia, cogli Elf Power, e con “Elf Power”, va sul sicuro. Questa roba che ti hanno dedicato, vecchio Vic, non è per niente male.

Giovanni Dozzini (www.ondarock.it)

novembre 27, 2010 at 10:55 am 1 commento

Brotherhood (Fratellanza) di Nicolo Donato ( dvd )

L’amore ai tempi del… neonazismo! Ecco un sottotitolo perfetto (parafrasando uno dei narratori più grandi del Novecento) per “Brotherhood – Fratellanza”, pellicola del regista italo-danese Nicolo Donato, che arriva dalle fredde terre del nord Europa vincendo nel 2009 il Marc’Aurelio d’Oro come Miglior Film al Festival del Film di Roma. Quello che il regista porta sullo schermo è una meravigliosa storia d’amore – che sia omosessuale poco importa ai fini della narrazione – in una situazione assolutamente eccezionale: all’interno di un gruppo neonazista. Con questa pellicola vi addentrerete nei meandri della becera ideologia del neo fascismo, scoprendo, grazie alle accurate ricostruzioni, come agiscono e si muovono questi gruppi nella nostra società. Non c’è la volontà, da parte di Donato, di criticare l’operato e l’ideologia della nuova destra, quello che più interessa al giovane regista è scavare a fondo la psicologia dei suoi due personaggi: Jimmy, carismatico capogruppo, e Lars, il nuovo adepto. La narrazione scorre piacevole e non scade mai nel banale, allontanandosi ed evitando gli inutili stereotipi dell’omosessuale o del nazista. L’amore in questo caso è davvero la forza che spinge ad agire, a lottare per ritrovare la propria identità all’interno di una strana situazione, in cui Jimmy e Lars sono vittime e carnefici. Se sperate di andare a vedere un “Brokeback Mountain” all’europea siete completamente fuori strada: “Fratellanza” è tutt’altro. La sceneggiatura scorre limpida e senza sbavature, non esagerando mai, riuscendo a far accettare allo spettatore le più brutali situazioni. La necessità di mantenere la segretezza del rapporto per Jimmy e Lars è di fondamentale importanza per non perdere il senso di appartenenza. L’inizio del film è la perfetta riprova di quello che succederà in seguito: un pestaggio ai danni di un ignaro giovane omosessuale. A lasciare senza fiato è soprattutto la stupenda fotografia, soprattutto nelle scene di sesso. Donato riesce a far salire l’interesse grazie ad un uso sapiente della suspence, rivalorizzando quindi uno degli elementi che dovrebbe essere cardine di ogni buon film (o anche solo scena). La crudezza, la barbaria, i comportamenti beceri sono il contro altare perfetto per una meravigliosa storia d’amore, nel mondo oscurato e oscurantista della modernità. Da vedere!

Davide Monastra (www.ecodelcinema.com)

novembre 26, 2010 at 6:43 PM Lascia un commento

Shadow di Federico Zampaglione ( dvd )

Biker d’alta montanga, pedalatore solitario, David stavolta ha scelto il luogo sbagliato per le sue sgroppate della domenica. Girano brutte voci intorno al picco prescelto e le stesse persone del luogo ne sono abbastanza terrorizzate. La situazione però da spaventosa si fa pericolosa quando per difendere una ragazza David si conquista l’inimicizia di due violenti della specie peggiore, quella armata, che inseguono e malmenano la coppia per puro senso di prevaricazione. Ma il vero male che si annida nelle montagne è ben altro ed è in agguato.
C’è il luogo inquietante caratterizzato da luci, colori e condizioni meteo plumbee (un bosco idealmente situato in America ma realmente scovato sul confine tra Austria e Slovenia), c’è la situazione pericolosa (il viaggio solitario), il confronto con una natura ostile, l’incontro che scatena la storia (prima con una donna, poi con dei violenti) e infine la caduta nel precipizio del male puro, tutto quanto girato da troupe italiana con cast americano e in lingua inglese (poi doppiato): deve essere per forza un horror italiano anni ’70! E invece no, è il nuovo film di Federico Zampaglione, di professione cantante dei Tiromancino e regista solo occasionalmente, almeno fino a ieri, cioè fino a Nero Bifamiliare, una commedia nera d’esordio poco riuscita che nulla ha a che vedere (sia per stile che per raffinatezza) con Shadow.
Zampaglione questa volta sembra un vero regista, mostra di sapere davvero cosa fa, non solo avendo un’idea ben chiara di che cosa sia il cinema dell’orrore, che senso abbia e che cosa si celi dietro la repulsione che le immagini spaventose provocano in noi, ma anche essendo dotato di una propria visione personale di come si debba raggiungere l’obiettivo di ogni film dell’orrore: generare inquietudine e quindi dubbio intorno agli elementi solitamente tranquillizanti.
C’è infatti molto poco sangue in Shadow, nonostante sia un racconto di violenza e ad un certo punto anche di tortura, ma quello che perde in gore il film lo guadagna in tensione, cercando in ogni momento di giocare con le aspettative dello spettatore abituato ad assistere alle disperate resistenze contro il dolore e la morte dei protagonisti del cinema horror grazie ad anni di B-movies.
Tuttavia, forse proprio il desiderio di spiazzare e in questo modo sottrarre certezze a un certo punto prende la mano al regista. Un colpo di scena di troppo (e troppo grande) proprio nel finale costringe infatti a rileggere la trama di Shadow e il suo simbolismo a quel punto evidente sotto una luce diversa, più politica e, in un certo senso, meno potente ed universale di quanto non fosse senza quell’ultimo, estremo, twist.
Ma nemmeno un’eccessiva sorpresa di troppo cancella il merito principale di questo film, cioè la dimostrazione che possa esistere ancora un altro tipo di cinema italiano che non sia costretto a scegliere tra le solite storielle pretenziose e le altissime punte autoriali (per definizione non replicabili industrialmente), un cinema che pur rifacendosi a una tradizione nostrana sappia variare dall’immaginario filmico italiano odierno, che non viva di sussidi statali, non sia figlio delle solite case di produzione e sia in grado di rivendicare un’idea professionale e internazionale di cinema di genere.

Gabriele Niola (www.mymovies.it)

novembre 22, 2010 at 5:34 PM Lascia un commento

Black dub – Black dub ( cd – 2lp )

E’ la maledizione dei produttori. C’è chi li ritiene persino più importanti dei musicisti, visto come alcuni di loro – i più bravi, ovviamente – sanno mettere la loro impronta sulla musica altrui. Ma quando hanno aspirazioni da musicisti, non riescono ad ottenere gli stessi riscontri e gli stessi riconoscimenti.
Potrebbe essere, anzi è la storia di Daniel Lanois: l’uomo che ha segnato indelebilmente il sound di U2, Bob Dylan e recentemente anche di Neil Young. Ha una ormai lunga carriera da solista, in cui ha esercitato e cantato quel suono stratificato di cui è maestro, e che ha raccontato perfettamente in “Here is what is” , splendido documentario uscito in DVD tre anni fa. Che fosse la volta buona che gli si dia quel che merita come autore? I Black Dub sono il suo nuovo progetto, un gruppo fondato assime a Trixie Whitley (figlia del compianto Chris) alla voce, Brian Blade alla batteria e Daryl Johnson al basso. Il nome della band è un termine di quelli che in critica letteraria verrebbe definito “rematico”, ovvero descrive letteralmente la forma del tes– un po’ come certe canzoni dei R.E.M., per intenderci: “Country feedback” (dove c’è effettivamente quella musica, ma con quell’effetto) o “E-Bow the letter” (una lettera, musicata con quell’effetto di chitarra). Così nella musica dei Black Dub ci sono sonorità scure, legate al blues. E c’è del Dub, inteso nel senso più ampio del termine, non soltanto legato al reggae: ovvero la manipolazione e la stratificazione di suoni. C’è il marchio di Lanois, quindi: e per esempio nel suono delle chitarre ci sono diversi echi del suono riverberato e messo in loop tipico degli U2. Ma c’è anche un lavoro sulla ritmica notevole, frutto dell’esperienza di Johnson e Blade, musicisti con un curriculum legato al jazz. La voce della Whitley è sensuale, decisamente più forte di quella un po’ fragile di Lanois, che funziona meglio come contrappunto. Ma il risultato complessivo è di un suono profondo, originale, che supporta belle canzoni come “I believe in you” (questa pesca sì dal mondo del reggae).
Insomma: davvero un ottimo disco. Se vi piace il sound di Lanois, questo disco è da avere assolutamente, assieme all’altro piccolo gioiello che ha prodotto ultimamente, la colonna sonora di “Here is what is”, di cui si parlava prima.

Gianni Sibilla (www.rockol.it)

novembre 20, 2010 at 12:37 PM Lascia un commento

Bright star di Jane Campion ( dvd )

818. Il ventitreenne John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne si conoscono, grazie all’interesse della ragazza per le sue poesie, si frequentano, si scrivono, si fidanzano, nonostante le condizioni economiche disperate del poeta. Minato dalla tubercolosi, Keats si vede costretto a partire per l’Italia, dove il clima è migliore e dove troverà la morte, nel febbraio del 1821.
Bright Star racconta l’inabissamento amoroso sottolineandone il parallelo con la dissoluzione fisica del poeta, ma sceglie il punto di vista di Fanny Brawne per narrare innanzitutto un nuovo personaggio femminile, la cui esuberanza intellettuale è mitigata da una crudele coscienza di ciò che le sta accadendo e si risolve in un’accettazione che è remotissimo eco di quella che fu di Isabel Archer, la stella più luminosa del firmamento di Jane Campion.
Lungi dall’essere un pretesto per evitare la formula più comune di biopic, perciò, l’adozione dello sguardo di Fanny, che incontra Keats subito dopo la pubblicazione di Endymion e lo perde dopo avergli ispirato le liriche che lo faranno amare dal mondo, è il modo in cui la regista, col sorrisetto sulle labbra, riflette sul potere creativo del sentimento amoroso. Instaurando un triangolo tra Keats, l’amico Brown, che lo vorrebbe al riparo dall’influenza femminile, protetto dai classici, e Fanny, che ad ogni apparizione distrae e confonde, la Campion racconta come l’infiltrarsi di una musa, con tutti i limiti del suo agire, nel mondo libero e ozioso degli uomini abbia strappato Keats all’accademia e permesso l’estensione del romanticismo al di là della pagina, nella vita, e dunque, per affinità di cose, nel cinema.
Tra gli interstizi di un rituale quotidiano allegramente rigido, fatto di lezioni di danza nel salotto di casa, di passeggiate e danze e ruoli precisi, tra le mura stesse della casa, dove regna l’ordine e la cura, irrompe la vertigine che il poeta domanda e suscita; il desiderio di un per sempre, che nella vicenda di Keats passa dal verbo alla carne e trova l’eternità.
Quando si àncora alla normalità dello scambio amoroso, quando si affida ad Abbie Cornish e alla credibilità della sua interpretazione, il film si toglie il costume e tocca i suoi vertici, ma la tentazione di obbedire alla richiesta di confezionare “a thing of beauty” è spesso irresistibile e talvolta lo affonda nella maniera.

Marianna Cappi (www.mymovies.it)

novembre 20, 2010 at 12:29 PM Lascia un commento

Bruce Springsteen – The Promise ( 2cd – 3cd+3dvd – 3cd+3bray – 4lp )

Ci sono alcuni temi ricorrenti e universali che possono rendere leggendaria una storia, romanzo o film che sia: la fine dell’innocenza e il passaggio alla vita “adulta”, una lite con un (ex) amico e mentore, le conseguenze personali e artistiche di un grande successo. Tutte queste cose sono successe a Bruce Springsteen nel periodo tra “Born to run” e “Darkness on the edge of town”: è per questo motivo che ciò che avvenne tra il ’76 e il ’78 ha assunto una dimensione che va oltre la biografia del singolo cantante. Tutto quello che ci troviamo oggi tra le mani doveva uscire due anni fa, per i trent’anni di “Darkness”. Ma questa storia richiedeva più tempo e più spazio per essere raccontata. Così il progetto è cresciuto, si è ingigantito, fino a diventare quello che è adesso.
In realtà, come ci ha spiegato Jon Landau, il manager di Springsteen, si tratta di due pubblicazioni distinte e complementari: “The promise”, un doppio CD con 21 canzoni tratte dalle sessioni di quel periodo; e poi un box, “Darkness on the edge of town”, che contiene la rimasterizzazione del disco, i due cd di inediti e tre dvd, per quasi 8 ore di materiale.
“The promise” non è una semplice raccolta di “outtakes”. Anche se da lì parte: in seguito alla causa con l’ex manager Mike Appel, a Springsteen venne impedito di entrare in studio per un anno e mezzo. Quando finalmente tornò a registrare, nel ’77, si sfogò: decine di canzoni, molte delle quali solo abbozzate, alla ricerca di un suono ed un’identità diversa dal muro di suono di “Born to run”. Ne uscì “Darkness”, disco più secco, cupo e introspettivo, con brani meno epici e più disillusi. “The promise” nasce dagli “scarti”, o meglio dai vari tentativi ed errori fatti in quel periodo. Ma non si tratta di un raschiamento di barile: le canzoni sono state terminate quest’estate e sono state e messe in sequenza come se fossero un album vero e proprio. Il risultato è uno Springsteen contemporaneamente nuovo e riconoscibile, che mostra direzioni e ramificazioni diverse del suo lavoro: più intimista, anche più pop e divertito rispetto a quello di “Darkness”. Nelle 21 canzoni c’è molto materiale già noto, perché quelle sessioni circolano da tempo sotto forma di bootleg, e perché alcuni temi musicali e lirici vennero poi ripresi in altre canzoni: “Come on (let’s go)” è “Factory” con un altro testo, per esempio, con delle frasi che poi sarebbero finite in “Johnny bye bye”, b-side del periodo “Born in the U.S.A.” ripresa anche su “Tracks”. Poi ci sono classici che non avevano mai visto la luce ufficialmente, come la versione di studio di “Because the night” (bella, ma debole rispetto alle performance live del periodo e a quella di Patti Smith). C’è “Fire”, e c’è anche quella “The promise” che ogni fan che si rispetti conosce a memoria, perché è una delle sue canzoni più belle di sempre, ma che al tempo non venne pubblicata perché troppo personale – è la storia metaforica della sua lite con Appel e delle conseguenze del successo. Ci sono versioni alternative diverse e belle quanto gli originali, come “Racing in the streets” più rock e con il violino e “Candy’s boy” (ovvero “Candy’s room” rallentata), canzoni giocose come “Ain’t it good for you”, piccoli gioielli di power-pop come “Rendezvous”, altro titolo noto ai fan. Si potrebbe andare avanti all’infinito a spiegare e commentare, a dire quali canzoni mancano all’appello. Qualche fan si è già lamentato degli interventi recenti sui brani, non dichiarati nei dettagli e perlopiù impercettibili (unica eccezione il singolo “Save my love”, evidentemente cantato di fresco). Ma vi basti sapere che “The promise” è un gran disco di rock, l’anello mancante tra “Born to run” e “Darkness”. Punto.
Poi c’è il box: per un centinaio di euro vi portate a casa una confezione lussuosa, con tanto di riproduzione del famoso quaderno di Springsteen usato per conservare appunti e testi di tutti i materiali e le canzoni cui Springsteen stava lavorando. E qui c’è la vera sorpresa. Perché paradossalmente la cosa più bella di tutto il box è la più recente. I tre DVD contengono il documentario di Thom Zimny (un gran film, per la cronaca, con materiali d’archivio e recenti rimessi in fila in modo narrativamente ineccepibile), un concerto inedito a Houston del ’78 – recuperato dalle riprese interne del luogo in cui si svolse – e vari materiali d’archivio; e soprattutto una ri-esecuzione integrale del disco girata lo scorso anno, a porte chiuse in un teatro di Asbury Park, che è la cosa più toccante e musicalmente devastante di questa operazione. Solo la sequenza iniziale sarebbe da far studiare a chi vuole fare il regista, così come la fotografia, cruda e dura come la musica: il pubblico sarebbe stato davvero di troppo, queste canzoni avevano bisogno di tensione, e la tensione è arrivata dall’assenza, eccome se è arrivata. La E Street Band che ri-suona il disco con una carica, una rabbia e un suono chitarristico che vi farà fare un salto sulla sedia. Volevano una fotografia della E Street Band attuale, da mettere a confronto con quella di 30 anni fa. Beh: la fotografia in bianco e nero e “vecchia” è bella, bellissima anche nella sua versione restaurata attuale. Ma la nuova foto nuova splende ancora di più, con quei colori così vividi e austeri che sono un pugno nella pancia.

Gianni Sibilla (www.rockol.it)

novembre 15, 2010 at 6:03 PM 1 commento

Due vite per caso di Alessandro Aronadio ( dvd )

Matteo e Sandro guidano velocemente in una piovosa notte romana. Sandro si è ferito al pollice e Matteo lo sta conducendo al pronto soccorso, ma per un malfunzionamento dei freni, tamponano l’auto di due poliziotti in borghese che per pronta risposta li fermano, li perquisiscono e li colpiscono violentemente. Una volta rilasciati dalla questura, i due vorrebbero ottenere giustizia in tribunale ma un avvocato gli consiglia il patteggiamento per evitare ulteriori problemi. Il segno di quell’esperienza resta però dentro Matteo, facendo crescere in lui una rabbiosa frustrazione che si attutisce solo quando incontra Sonia, cameriera del locale Aspettando Godard. Ma cosa sarebbe successo se in quella stessa notte d’aprile Matteo avesse frenato in tempo?
Quando i principi della fisica dinamica si intrecciano con quelli della drammaturgia, il cinema si diverte a costruire universi paralleli che esplorano l’infinita potenza del caso sulle nostre vite. Sdoppiare l’esistenza dei personaggi e biforcare i sentieri del racconto sono pratiche che hanno affascinato tanto i grandi autori come Kieslowski o Resnais, quanto la commedia brillante (con Sliding Doors a far da calco permanente). Se ne serve anche Alessandro Aronadio per la sua opera d’esordio: un duplice sdoppiamento che da una parte ci racconta la “doppia vita di Matteo” e dall’altra incrocia esistenzialismo giovanilista e film d’attualità.
Delle due identità del film è sicuramente la prima la più debole, che accusa il peso di personaggi e situazioni troppo caricate e troppo poco definite (la violenta arroganza dei due poliziotti, la figura del losco gestore di origine ceca) e del blando citazionismo da giovane cinéphile (il fermo immagine di Antoine Doinel ne I quattrocento colpi che ricorre con funzione preparatoria). Il reale, invece, fa ingresso più silenziosamente, un poco alla volta, attraverso una crescente presenza di notiziari che riportano situazioni della cronaca italiana più recente e illustrano il vero sostrato del film. Gli stupri, i linciaggi, gli scontri di piazza costituiscono il contesto che negli ultimi dieci anni ha fatto sviluppare all’Italia una coscienza schizofrenica che ha trovato pronta risposta nel giustizialismo personale e nell’odio comunitario. Il tentativo di Aronadio è quello di tematizzare questa schizofrenia da un punto di vista normalmente invisibile agli occhi dei media, quello dei ventenni, e di ricongiungere le due antitesi in una situazione molto vicina a quella dei fatti del G8 di Genova.
Ricongiungimento tragico quindi, anche se apparentemente pacificato nel suo non prendere una posizione netta (o meglio, nel prenderle entrambe). In realtà, anche se nel contesto filmico restano figlie della stessa rabbia giovanile, è difficile che alla fine restino dubbi anche solo per un attimo sull’identità della vittima e quella del carnefice.

Edoardo Becattini (www.mymovies.it)

novembre 13, 2010 at 12:43 PM Lascia un commento

Elvis Costello – National Ransom ( cd – 2lp )

Accrington, 1937. Tucson, Arizona, 1978. Un salotto a Pimlico, Londra, 1919. Da qualche parte in America Centrale, 1951. Sulla strada per la Cain’s Ballroom, 2009. Se cercate un filo narrativo, se inseguite l’unità di tempo e luogo, siete sulla pista sbagliata. “National ransom”, il nuovo album di Elvis Costello, salta da una pagina all’altra del calendario e della mappa geografica. Sedici canzoni (diciassette nell’edizione giapponese, i collezionisti sono avvertiti), ognuna di loro provvista di precise indicazioni spaziotemporali: come fosse una sceneggiatura, o un piccolo romanzo. Idea interessante, che poteva venire in mente solo a uno storyteller del calibro dell’inglese: uno che ama leggere e che scrive quasi compulsivamente (celebri le sue annotazioni fiume sulle note di copertina delle ristampe). Che con le parole ha sempre avuto l’abilità di un giocoliere. Che usa un vocabolario ricco e immaginifico per raccontare in musica le sue storie e i suoi personaggi (e qui non si smentisce, anzi). Ha registrato di nuovo a Nashville, ancora con T- Bone Burnett a dirigere le operazioni: lo si potrebbe scambiare per il sequel di “Secret, profane

& sugarcane” ma non lo è. Perché sì, ci sono i Sugarcanes, i suoi nuovi amici americani cresciuti a pane e bluegrass, ma anche due terzi degli Imposters e dei vecchi Attractions; cosicché Pete Thomas (batteria) e l’impareggiabile Steve Nieve (tastiere) sono chiamati a interagire con la chitarra di Marc Ribot, la lap steel e il dobro di Jerry Douglas, il violino di Stuart Duncan, la voce di Vince Gill e il pianoforte del resuscitato Leon Russell. Gli esiti sono imprevedibili, e intriganti. C’è il country di “That’s not the part of him you’re leaving” e di “All these strangers”, c’è il c&w uptempo di “I lost you”, ma la musica sconfina ben oltre le frontiere del Tennessee e del Kentucky. “National ransom” è un disco ibrido, apolide e senza età anagrafica. Denso e lungo (la misura di un doppio Lp nelle intenzioni dell’autore, che consiglia l’ascolto in vinile). Impetuoso e un po’ logorroico, com’è nello stile di Costello. Meno organico ma decisamente più vivace del suo predecessore. Rodati da un lungo tour, i Sugarcanes hanno sviluppato un’invidiabile telepatia, e l’aggiunta di ospiti e turnisti serve dare un’altra rimescolata al mazzo. L’inizio è fuorviante. La title track (come la quasi contemporanea “The money shuffle” di Richard Thompson) affronta di petto la Grande Crisi e l’ingordigia di Wall Street, oscillando “tra il 1929 e i giorni nostri”, in un mondo di povera gente sbranata dai lupi in tuba e cravatta (come quello disegnato in copertina dal cartoonist Billy Millionaire, lo stesso di “Secret…”). Il Vox Continental anni ’60 di Nieve e il ritmo beat farebbero pensare a un nuovo “This year’s model” ma è un falso allarme: di lì in avanti il disco cambia continuamente passo e clima, anche bruscamente. Gli Imposters e il rock’n’roll dettano legge anche in “The spell that you cast” (solo il Costello della maturità, però, avrebbe potuto ideare una sequenza d’accordi così) e in “Five small worlds”, con un bel sapore western e gustosi accenti twang di chitarra. Ma “National ransom” ha anche e soprattutto un’anima acustica. La storia del cowboy cantante di “Jimmie standing in the rain”, epigono inglese e quasi fuori tempo massimo del grande Jimmie Rodgers, è raccontata a tempo di swing, tra Cab Calloway e Stephane Grappelli, e una analoga atmosfera démodé avvolge anche l’epilogo, “A voice in the dark”. Lo spettro di un soldato scomparso durante la prima guerra mondiale aleggia tra le spazzole e i violini della deliziosa “You hung the moon”, Elvis perfettamente a suo agio nei panni del crooner anni Trenta. E anche quando è l’attualità a prendersi la scena (la tragedia dell’uragano Katrina in “Stations of the cross”, ambientata “possibilmente a New Orleans, nel 2005”; la paranoia nella metropolitana di Londra, dopo le bombe e gli attentati terroristici del luglio di quello stesso anno) non è detto che la musica ne segua le orme: il seducente folk jazz di “One bell ringing” non ha nulla di caotico e di tenebroso, ricordando semmai certe eleganti pagine di Joni Mitchell. Insomma: il tratto è ondivago, lo schermo panoramico. Si passa da una folk song minimale e sbarazzina (con tanto di fischiettio finale, “A slow drag with Josephine”) all’r&b rinforzato di ottoni di “Church underground” e “My lovely Jezebel”, dove forte è l’impronta del coautore Leon Russell; dal voce & chitarra acustica di “”Bullets for the new-born king” ai ricami di slide e mandolino di “Dr. Watson, I presume” (dove il dottore del titolo non è l’assistente di Sherlock Holmes ma Doc Watson, il gigante della old time music americana incontrato da Costello al Merlefest di Wilkesboro, North Carolina, un giorno del 2007), in un cocktail di generi e di stili che inebria e un po’ intontisce. “National ransom” è, forse, il disco più letterario e poliglotta dell’anno. Ambizioso anche per gli standard del suo autore, che dai tempi di “Spike”, fine anni Ottanta, non stipava tutto il suo sapere musicale in un unico album. Da allora ha inciso con quartetti d’archi e per la Deutsche Grammophon, con Bill Frisell e con Burt Bacharach , con Allen Toussaint e con la soprano Anne Sofie Von Otter. L’orizzonte è ancora più vasto, dietro gli spessi occhiali la vista di Elvis s’è fatta ancora più lunga.Alfredo Marziano (www.rockol.it)

novembre 13, 2010 at 12:17 PM Lascia un commento

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