Archive for agosto, 2016

Feria d’agosto: RI…VISIONI – Piacenza – Vladivostok (passando per Istanbul e le valli di Comacchio) – viaggio lento di solo ritorno nel cinema già visto, dalla via Emilia all’Est, di Annalisa Bendelli.

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TERZA (ri)VISIONE: “Andreij Rubliov” di A. Tarkosvkij, 1965 – 1969

E’ davvero immensa la terra del popolo russo, c’è da perdercisi, seguendo il corso dei fiumi, sprofondando nel fango, nelle paludi tra la tundra la taiga e la steppa, ancor più a Est, dal Dnepr al Don, al Volga…

E magari, indugiando negli spazi sterminati della Russia centrale, può accadere di risalire nel tempo attraverso i pantani della storia, solo a tratti illuminati da bagliori che si riflettono e subito si spengono nei corsi e negli specchi d’acqua, talora limpidi e rapidi, per lo più immobili, lenti, limacciosi…

Ancora sulle piste indicate da Tarkovskij, nelle sequenze delle sue carrellate laterali, dove scorrono lingue di terra fangosa e acquitrini, foreste impenetrabili, campi, monasteri, villaggi e città.

Vladimir, Kiev, Mosca, Novgorod… appaiono improvvise come visioni, cinte da mura e sormontate dai cipolloni dorati delle cupole, oppure distese, come nelle prospettive ingenue e semplificate delle carte medievali, virate in seppia, pullulanti di case e cose e persone, ordinate in geometriche disposizioni.

E’ lungo uno di questi percorsi che ho incontrato tre monaci in cammino, provenienti dal monastero di Andronikos e diretti a Mosca, Danill, Kirill e un giovane Andreij Rubliov, promettente pittore di icone.

Il secondo lungometraggio del grande regista russo ripercorre la storia del grande iconografo vissuto a cavallo del XIV e XV secolo, ne riprende il viaggio, dalla giovinezza alla vecchiaia, viaggio lento, estenuante, di cammino e soste, inanellati come un rosario, di fatica e tormenti e flagelli, polvere, fango, pioggia battente, pestilenze, feroci saccheggi dei tartari, ma anche di opere grandi e titaniche, gli affreschi delle chiese e monasteri, le costruzioni, la grande campana di bronzo.

E’ storia ancorata, quasi sprofondata, nella terra e inzuppata nell’acqua, elementi pesanti, difficili, ostili, che duran fatica, trascinano, inghiottono, intridono… il cielo, cui tendono i bulbi scintillanti delle cupole, è sopra, lontano, il volo sognato dall’uomo è relegato nel prologo, dove un Icaro medievale, tale Yefim, costruisce e collauda una protomongolfiera: volerà radente sopra case, fiume, pianura per precipitare quasi subito e schiantarsi a terra…

Solo metonimici, simbolici, battiti d’ali, epifanie angeliche, negli otto episodi che scandiscono la storia, in cui Rubliov è volta a volta testimone, protagonista, comprimario… stormi d’uccelli in volo, criniere e code di cavalli in corsa, l’ala bianca dell’uccello morto aperta e spiegata dal pigro assistente del monaco pittore…

E qualche sprazzo, barlume di luce, piccoli eventi naturali come portenti numinosi: nelle pozze melmose, nei botri, il guizzo della biscia d’acqua nel fiume, le felci fluttuanti nell’acqua fresca e cristallina… e ancora i piumini delle betulle sospesi nel biancore abbacinante delle pareti intonacate, i fiocchi di neve che volteggiano dentro la chiesa sventrata e devastata dai tartari…

Ma quante funi e impalcature, argani e carrucole, attraversano le inquadrature dell’operosità collettiva, a raffigurare e simboleggiare l’ancoraggio alla terra della fatica, dello sforzo, della sofferenza…

E’ l’epoca in cui, anche attraverso l’opera di artisti e asceti come Rubliov, si coagula e risorge l’orgoglio nazionale del popolo russo, dopo l’asservimento ai signori dei principati e l’avvilimento seguito alle invasioni tartare:

“Questo film avrebbe dovuto raccontare come la nostalgia popolare di fratellanza in un’epoca di feroci lotte intestine e di schiavitù tartara creò la geniale “Trinità” (l’opera suprema di Rubliov) ossia un’immagine ideale di fratellanza … ” “queste novelle… sono collegate dall’interiore logica poetica della necessità per Rubliov di dipingere la “Trinità”( in A. Tarkovski, “Scolpire il tempo”, UBULIBRI, pag. 36) .E’ l’epoca in cui fioriscono le dispute sottili e inquiete sul senso dell’arte tra Andreij e Teofane il Greco, suo maestro, colui che arrivando da Costantinopoli porta stimoli che propiziano la rinascita (così sempre Tarkosvkij, un po’ sopra il passo citato: ” Partendo dal concreto esempio di Rubliov intendevo indagare il problema della psicologia della creazione artistica e approfondire la condizione spirituale e i sentimenti civili dell’artista che crea valori spirituali d’importanza imperitura”).

Con questo immenso film, dal respiro epico-dolente, talora insopportabilmente lento ed estenuante, Tarkovskij celebra poeticamente la grande anima del popolo russo, umiliato e offeso, grandioso tanto nella sopportazione quanto nell’elevazione spirituale.

Ci chiede altrettanta pazienza e umiltà, quasi una disposizione alla preghiera, anzi un atto di preghiera e sottomissione, come atto di sottomissione, umiltà, preghiera è la pittura delle icone di cui Rublev è grande campione.

Il premio, se c’è, è oltre, vi allude l’epilogo, dove scorrono le meravigliose e gioiose icone di Rubliov, nel tripudio policromo di panneggi e aureole ed ali angeliche dopo il severo e austero, castigato, quasi penitenziale, bianco e nero del film.

agosto 30, 2016 at 9:50 am 5 commenti

Feria d’agosto: RI…VISIONI – Piacenza – Vladivostok (passando per Istanbul e le valli di Comacchio) – viaggio lento di solo ritorno nel cinema già visto, dalla via Emilia all’Est,di Annalisa Bendelli SECONDA (ri)VISIONE: “L’infanzia di Ivan” di Andrej Tarkovskij, 1962

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In questa licenza d’indugio, vagabondaggio, vacanza dello spirito che mi sono presa e forse infliggo al popolo di Alphaville (ma questi in gran parte avrà trovato riparo in più ameni siti vacanzieri), seguendo sterrati e vie d’acqua e di fango, dalla bonaccia incantata delle paludi padane trapasso a nord-est nella taiga allagata del disgelo, lungo il corso del Dnepr, dove nell’oscurità livida a tratti illuminata dai bengala, un ragazzino dal viso d’angelo e dall’espressione cupa e accigliata, nuota e guada il fiume, circospetto.

Ancora l’acqua deuteragonista, regno dell’anomia e del nulla, che lambisce canne e tronchi d’albero, si allarga in pozzanghere, inonda il bosco, le betulle che nell’aria fosca disegnano grafismi eleganti… meravigliosi pur nell’atmosfera parainfernale, di palude stigia…

Il ragazzino è un informatore dell’esercito russo, sul fronte a Est, durante la seconda guerra mondiale, attraversa il fiume e le linee nemiche in missioni impossibili perché, piccolo e sottile, riesce a passare dove gli adulti non potrebbero.

Privato precocemente della spensieratezza dell’infanzia è un piccolo soldato, determinato e cattivo, severo e accigliato. Si muove con piena cognizione, conosce i luoghi e la natura, raccoglie indizi e segni, aghi di pino, pezzi di corteccia, foglie…

L’incanto della natura, l’età dell’oro vagheggiata o rimpianta, è territorio del ricordo e del desiderio, è materia di sogno, tra acqua, cielo, terra, il bosco incantato e luminoso, le visioni di declivi e pianori, le betulle e le allodole (come i cuculi nella boscaglia padana di Avati), la spiaggia assolata, l’acqua fresca nel secchio, i girotondi felici dei bambini, gli occhi glauchi della mamma, il cielo stellato catturato nel fondo del pozzo, come le strelle nei fossi della palude deltizia di Comacchio…

Ma il tentativo di afferrare la stella è bruscamente vanificato da uno sparo che lacera l’incanto: il ritorno alla realtà è segnato dal corpo riverso della mamma, a fianco della bocca del pozzo.

La realtà è un incubo reso in toni neri e plumbei, il bosco e il fiume e le paludi con i segni della devastazione della Storia, realistici e simbolici insieme.

La guerra non è narrata in modo tradizionale, non scene d’armi, nessuno schieramento… si vede solo nei volti, nelle costruzioni dell’uomo e nella natura desolate e sfregiate… nello sguardo duro del ragazzino privato atrocemente della serena quotidianità familiare e della felicità.

Sorvolando su alcune lungaggini compiaciute, su divagazioni narrative, sul glamour un po’ vanesio e atteggiato del fanciullo diafano-dorato, troppo querulo ed elegante nel dolcevita mélange (in quei modaioli fifty-sixty non ne fu immune nemmeno il rigoroso, integerrimo mondo sovietico), restano potentemente impresse nella retina e nell’anima immagini bellissime e visionarie nell’alternanza di sogno e incubo, secondo la sintassi poetica teorizzata con forza dal regista nel suo ‘Scolpire il tempo”…

Un’ultima considerazione: l’accusa e il sospetto di molta critica d’epoca e di oggi di formalismo e calligrafismo compiaciuto suonano anche in questo caso falsi e fuorvianti… soprattutto ciechi di fronte al lirismo autentico e alla forza espressiva e figurativa di una delle prime grandi prove di un grande regista.

agosto 23, 2016 at 10:31 am 6 commenti

Feria d’agosto: RI…VISIONI – Piacenza – Vladivostok (passando per Istambul e le valli di Comacchio) – viaggio lento di solo ritorno nel cinema già visto, dalla via Emilia all’Est di Annalisa Bendelli

Le-strelle-nel-fosso

PRIMA (ri)VISIONE: “Le strelle nel fosso” di Pupi Avati

Irredimibile padana ho fin dall’adolescenza vagheggiato sulle ironico – epiche note gucciniane l’approdo a un Ovest promettente, progressivo e migliore … Le strade asfaltate, le autostrade, correvano verso Ovest, lasciandosi alle spalle, scavalcando, paesaggi, l’Oceano stesso, verso le highway americane…

Ma cosa è rimasto a Ovest, ormai, poco o nulla da vagheggiare… gli approdi non si scorgono più, il mainstream si è rivelato cul de sac.

Tanto vale cambiare orientamento, in questa epoché estivante, ritrovare l’oriente, appunto, magari seguendo sterrati e vie d’acqua, quel Padus, che la via consolare emiliana costeggia, dal corso lento sinuoso così propizio agli impantanamenti, fino a farsi palude, acquitrino e poi perdersi nel più vasto stagno dell’Adriatico..

E nella lentezza del viaggio ritrovare umori, atmosfere originali, anfratti, cunicoli e misteriose vie laterali, incanti e sortilegi, come le “strelle”che brillano nel fosso di ineffabile e arcana poesia nel bellissimo film del 1979 di Pupi Avati, prezioso e pur dimenticato, si disse per sfortunate combinazioni distributive e mediatiche.

Una favola, anzi una concatenazione fiabesca, dall’oggi all’Ottocento del Narratore, l’acchiappatopi errante, al Settecento dell’arcana e bislacca storia dei quattro figli maschi dell’anziano Giove isolati in un recesso del mondo, la casona diroccata nella palude deltizia di Minerbio, in una ruvida, rustica, chiusa, condizione di adolescenti a oltranza, fino all’arrivo di Olimpia, la bellissima musicista ambulante, con la sua femminilità insieme raffinata e sorgiva, ingenua e sofisticata.

Anche Olimpia, nel suo viaggio da Rovigo verso la villa del conte Pepoli, signore e folle (per un colpo di sole in testa) custode della palude, abbandonata la via maestra, si impantana, felicemente direi, e, dopo lo smarrimento e lo sconforto iniziali, decide di restare nella casa dei cinque uomini, portando bellezza, freschezza, grazia e felicità in quella repubblica maschile malinconica, solitaria e selvatica…

Piccolo miracolo e sortilegio con sentore di favola orientale, quell’oriente che traluce malioso nell’acqua dalle iridescenze meravigliose, la pipì dei turchi di Costantinopoli che pisciano nel mare per far dispetto a quelli della sponda opposta, il giorno di Santa Caterina, secondo la bizzarra spiegazione di Silvano a una attonita e divertita Olimpia…

E il tema della pipì percorre come un rivoletto luminescente, infantilmente irriverente, la storia, dalla sosta della carrozza delle dame dirette a palazzo che lasciano nell’erba del fosso laghetti baluginanti spiati e traguardati dai ragazzoni appostati in estasiato imbarazzo prepubere, ai discorsi sul ‘pipì’ delle donne e degli uomini nel confronto di serafica e fanciullesca sfrontatezza cui didatticamente si presta Olimpia sollevando il gonnellone- corolla per mostrare a Bracco, il fratello piccolo che doveva nascer femmina, il suo pipì-pistillo…

Preziosismi colti e raffinati, colori di maiolica, avorio, rosa antico, pervinca e malva, richiami pittorici si mescolano a toni e sapori popolareschi e ingenui, Olimpia è una mirabile putta-putea ritagliata dai dipinti di Tiepolo o dalle aggraziate e leziose figurine muliebri di Watteau e Fragonard, con una sua carnalità e floridezza composta e attillata negli abiti settecenteschi serici e cangianti, svolazzanti di trine, i ricci ribelli ed esuberanti acconciati e raccolti con grazia, ineffabile eleganza e naturalezza insieme… Santa Rosalia, la santa bambina che il vecchio Giove invoca perché non lo faccia addormentare per non rischiare di non risvegliarsi più… è una porcellina rosea e paffuta che appare magicamente, seduta sul trespolo-altarino da chiesetta di campagna… e ancora c’è il gotico-padano così congeniale al regista, popolato di lemuri, demoni, fantasmi, l’ arciprete defunto che ritorna in visita di cortesia, il chierico annegato nel fosso che insegna a Silvano a leggere dal librone di chiesa in latino, le sorelle streghe murate dietro il camino, da dove rantolano i loro lamenti, eternamente perseguitate dalla madre morta che rivuole indietro la sua gamba d’oro (le figlie gliel’avevan sottratta prima di seppellirla)…

Bucolico e arcadico, protoromanticismo alla Emily Brontë (le scorribande dei fratelli e della fanciulla attraverso la palude- brughiera), elegiaco felliniano (insufflato dal clarinetto di Henghel Gualdi sullo struggente leit motiv della colonna sonora), confluiscono finale ‘orfico’ (così lo definì un colto critico all’epoca) del matrimonio multiplo, una sorta di baccanale meravigliosamente manierato, un’orgia estetizzante che sublima in quadri di assoluta bellezza, eleganza di gesti e movenze, cromatismi e simbolismi raffinati, la gozzoviglia di tradizione padana, con tanto di musi affondati nel cocomero e nel vino lustrale…

Trovo datate le riserve espresse a suo tempo – eran tempi in parte troppo svagati, in parte troppo seriosi – sui tratti estetizzanti dell’opera, perchè in essi io ravviso piuttosto la sublime qualità poetica ed estetica del film, a consegnarci – propiziato, evocato, suscitato e risuscitato dall’adulto estroso, raffinato e sensibile che è Avati, – l’incanto infantile dentro una natura estatica e magicamente bloccata, i meriggi assolati, le fronde che danno frescura e sussurrano misteriose nell’aria serotina, i sorrisi immemori, gli specchi d’acqua dove sgambettavamo sciabordando ignari e felici, i boschi delle cicogne, gli stagni dei girini, le scale fresche e polverose dei casali di campagna… un eden separato in cui si coagulano e vaporano, come da uno stagno fatato, gli incanti dell’infanzia mitica e mitizzata di ognuno di noi…

Mi si conceda un’ultima piccola provocazione… sempre più convinta partigiana del cinema di immagini e visioni più che di azioni, darei la palma, insieme al regista, non tanto alla squadra prediletta degli attori (Capolicchio, Cavina, Delle Piane…), questi sì relegati in una recitazione compiaciuta, piuttosto datata, da guitti-saltimbanchi padani, gigioni paghi del favore del ‘maestro’ pigmalione, darei la palma dicevo agli assistenti-artigiani apprendisti stregoni che hanno collaborato e supportato il regista nella sua stregonesca impresa, al compositore Amedeo Tommasi, al direttore della fotografia, quel Franco delli Colli che ha ripreso mirabilmente l’habitat padano delle Valli di Comacchio, alla costumista e scenografa Luciana Morosetti … credo si debba in gran parte a costoro la suggestione magica della visione finale di Olimpia biancovestita in fuga verso la carrozza che porta a palazzo, libellula, farfallina, falena, fantasma… seducente e dolcissimo angelo sterminatore…

agosto 10, 2016 at 10:13 am 3 commenti


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