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SONG OF A NAME – di François Girard – recensione di Stefania De Zorzi

Parafrasando “Le mille e una notte”, una buona storia può salvare la vita, o almeno mitigare il limbo del confinamento casalingo di questi mesi: è il momento di scoprire film belli e invisibili, rimasti tali anche per la chiusura delle sale cinematografiche durante gran parte del 2020.Fra questi “The Song of Names – La Musica della Memoria”, diretto dal regista franco-canadese François Girard, ispirato all’omonimo romanzo di Norman Lebrecht. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Dovidl Rapoport, violinista prodigio a soli nove anni (interpretato da Luke Doyle nei panni di Rapoport bambino, Jonah Hauer-King in quelli del giovane uomo, e Clive Owen da adulto), viene affidato dal padre Zygmunt ad una famiglia inglese; il fratello adottivo Martin (interpretato nelle tre età della vita rispettivamente da Misha Handley, Gerran Howell e Tim Roth) sviluppa con Dovidl un’amicizia profonda, sebbene conflittuale. Alla vigilia del concerto che dovrebbe lanciare nell’Olimpo dei grandi violinisti il ventunenne Dovidl, questi scompare misteriosamente nel nulla. Trentacinque anni dopo Martin, che non si è mai rassegnato alla scomparsa di Dovidl, si mette sulle sue tracce ripercorrendo una strada sbiadita dal tempo fra Londra, Varsavia e New York.Non è facile, dopo oltre settant’anni dalla fine dell’Olocausto, raccontare il dramma di un ebreo sopravvissuto allo sterminio senza scadere nel déjà-vu o nel facile dramma: tuttavia Girard riesce nell’intento grazie ad un soggetto intrigante, che si sviluppa con l’andamento di un thriller a sfondo storico, alternando in un montaggio sapiente il passato e il presente. Fino al momento in cui il mistero viene svelato e il tempo si ricompone, mostrando la continuità fra il gesto del bambino e quello dell’uomo maturo.La sceneggiatura delinea vivacemente i protagonisti, che emergono dallo schermo con tutta la loro prepotente forza interiore, sia nelle schermaglie feroci e innocenti fra bambini, che nel confronto difficile fra adulti ossessionati dal passato.Tim Roth e i giovanissimi interpreti sono straordinari; brava anche Catherine McCormack nei panni della moglie Helen, mentre Owen rimane fra tutti un po’ granitico.E’ un film attraversato dalla tragedia dell’Olocausto e della diaspora delle famiglie ebree, in cui la sofferenza, la rabbia e la commozione sono sublimati attraverso la musica e il realismo poetico con cui Girard evoca sia la formazione di due ragazzini nella Londra sfigurata dalle bombe, che la dolorosa presa di coscienza del giovane Rapoport.Da vedere, per capire meglio il valore mistico della memoria e lasciarsi commuovere senza timore di sentimentalismi.

febbraio 10, 2021 at 11:56 am 1 commento


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