Archive for novembre, 2022

Black Panther: Wakanda Forever diretto da Ryan CooglerBlack – recensione di Stefania De Zorzi

Se “Black Panther” aveva messo al centro della narrazione il nero al

posto del bianco, la cultura e le tradizioni africane anziché quelle

anglo-americane, il seguito “Black Panther: Wakanda Forever” compie un

ulteriore passo in avanti nel dar voce a categorie altrimenti messe in

minoranza sia al cinema che nella vita reale, rendendo protagoniste

donne dotate di genio, nonché di straordinaria forza psicologica e

fisica.

T’Challa/Chadwick Boseman è morto di un male misterioso, lasciando una

difficile eredità alla regina Ramonda/Angela Bassett che un anno dopo

deve vedersela con le pretese delle altre nazioni, avide di vibranio,

di cui Wakanda è apparentemente l’unico Stato detentore. Un rilevatore

di vibranio, inventato da una giovane scienziata, Riri

Williams/Dominique Thorne, permette alla C.I.A. di trovare un nuovo

giacimento sommerso nel mezzo dell’Oceano Atlantico. Gli scopritori

vengono però massacrati da un misterioso popolo subacqueo dalla pelle

blu, comandato dallo spietato Namor/Tenoch Huerta, intenzionato ad

allearsi con Wakanda contro il resto del mondo o a combatterla, a

costo di mettere a repentaglio la vita di Riri e della principessa

Shuri/Letitia Wright.

E’ un Marvel diverso da molti suoi roboanti predecessori, e lo si nota

subito dall’intro, virata su un luttuoso colore viola e priva

dell’abituale e rassicurante musica eroica, sostituita dal soffio del

vento, evocatore di ricordi , solitudine, deserto.

Ryan Coogler non rinuncia a vivaci scene d’azione, né al senso di

meraviglia indotto da scenografie spettacolari (il regno sottomarino

di Talokan, la nave futuristica di Wakanda), cari ai fan dei

cine-comics; introduce però anche una spiazzante dimensione intimista,

che prende spunto proprio dalla morte dell’eroe T’Challa, a imitazione

della prematura scomparsa nella vita reale dell’attore Chadwick

Boseman. La presa sul pubblico è fortissima nell’intreccio fra reale e

immaginario, ed è inevitabile immedesimarsi nei dolorosi ricordi e

nella difficoltà di elaborare il lutto sia di Ramonda che di Shuri: il

mondo al femminile significa introspezione, lacrime, sentimenti

espressi nei primi piani sui bei volti intensi delle protagoniste

(meritano menzione anche il generale Okoye/Danai Gurira e l’ex

fidanzata di T’Challa, Nakia/Lupita Nyong’o), e va fortunatamente ben

al di là delle sfide muscolari.

Non c’è solo l’esplorazione del lato emozionale di eroine potenti e

sensibili ad arricchire il film rispetto ad altri cine-comic, ma anche

la presenza di un ottimo antagonista: Coogler ne rilegge le origini,

non più atlantidee ma Maya, e il nome, Kukulkan, il cui alias è Namor

per un’ingegnosa trovata, che diventa anche chiave di lettura del

personaggio. Come tutti i cattivi che si rispettino Namor ha un lato

affascinante seppure oscuro, e la sua storia personale ci fa, almeno

in parte, comprendere le motivazioni dei crimini commessi. L’attore

messicano che gli dà corpo, Tenoch Huerta, ha una forte presenza

scenica, che non si vedeva dai tempi del Magneto di Michael

Fassbender.

Gli splendidi costumi di Ruth Carter restituiscono sia il

coloratissimo mondo africano che quello fantasmagorico dei

discendenti subacquei dei Maya, integrato con gioielli sofisticati e

dettagli hi-tech in combinazioni insolite quanto eleganti. Wakanda è

un altro pianeta, evoluto seppure fortemente ancorato a tradizioni

ancestrali, così come la Talokan degli abissi da cui emergono

sirene-Maya e il mezzo di trasporto più usato è la balena: a confronto

l’uomo bianco nei suoi tristi completi scuri ne esce sbiadito, in

tutti i sensi.

Unica pecca del film è la lunghezza: 2 ore e 40 minuti con alcune

ridondanze e dilatazioni, che non disturbano comunque più di tanto la

visione.

Senz’altro da vedere, non solo per gli appassionati del genere, con la

speranza di un seguito in cui ritrovare la squadra fiera e simpatica

di eroine a confronto con l’infido Namor.

novembre 19, 2022 at 11:08 am 2 commenti

DAMPYR diretto da Riccardo Chemello – recensione di Stefania De Zorzi

L’Universo Cinematografico Bonelli ha prodotto il suo primo film: “Dampyr”, diretto da Riccardo Chemello e ispirato all’omonima serie a fumetti ideata da Mauro Boselli e Maurizio Colombo.

E’ il 1992, e Harlan Draka/Wade Briggs sopravvive grazie alla propria fama di “figlio della strega” insieme all’amico Yuri/Sebastian Croft, liberando paesi di campagna da inesistenti spiriti maligni nel bel mezzo dei Balcani in guerra.

Le sorti del cialtronesco duo cambiano quando entrambi vengono prelevati con la forza dalle milizie del comandante Emil Kurjak/Stuart Martin, e condotti in una cittadina i cui abitanti sono stati trucidati da una banda di vampiri. Costretto suo malgrado a combattere, Harlan scopre di essere un Dampyr, figlio di una donna umana e di un Maestro della notte, l’unico in grado di uccidere le demoniache creature.

Il film emula coraggiosamente il modello Marvel: la sigla iniziale riunisce in una bella carrellata in bianco e nero richiami ai fumetti storici della Bonelli, da Tex a Dylan Dog, evocando in una manciata di secondi i beniamini di intere generazioni.

Alcune scene ben riuscite nella prima parte (il vampiro che trascina in una folle corsa in tondo la propria vittima, il primo incontro tra Harlan e Kurjak), sorrette da una buona fotografia notturna che traduce efficacemente sullo schermo la grafica del fumetto, e un’ambientazione azzeccata fra le macerie di paesi devastati dalle bombe, in un passato recente che riecheggia la guerra in Ucraina dei nostri giorni, fanno provare un moderato senso di esaltazione allo spettatore, rassegnato ormai da anni ad un cinema italiano avulso dal genere fantastico.

Risulta più difficile da sopportare la retorica di certi dialoghi, soprattutto nella seconda parte del film, dove la storia scivola su binari prevedibili e il confronto fra gli orrori della guerra e gli abomini vampireschi si banalizza in una sceneggiatura povera, in cui i personaggi rimangono solo abbozzati.

Nel complesso Chemello dirige con mano volonterosa un B-movie sufficientemente godibile, con le approssimazioni tipiche del genere: l’ambientazione geografica nei Balcani, che ricoprono nell’immaginario nostrano una zona ampia e vaga al di là dell’Adriatico, è priva di riferimenti precisi, mentre le immagini diurne risvegliano nella sgranatura ricordi dei film anni Settanta più che dei Novanta.

Gli effetti speciali sono un po’ artigianali, soprattutto ogni qual volta appare il malvagio Gorka/David Morrissey, truccato con un’ improbabile parrucca di capelli lunghi corvini e avvolto da tenebre visibilmente artificiali: ma è un peccato veniale, considerando che i mezzi in dotazione non sono faraonici.

Film da vedere, purché si sia appassionati di fumetti e di horror divertenti (anche in maniera involontaria, vedi la scoperta dell’incredibile libro-fumetto sulle origini di Dampyr nella cattedrale sotterranea) più che paurosi, sperando in un proseguimento più brillante delle vicende dei tre eroi, tutti belli e dannati. Notevole la vampira Tesla/Frida Gustavsson, con un look a cavallo fra Annie Lennox e la replicante assassina di Blade Runner.

novembre 14, 2022 at 11:01 am 2 commenti

LA STRANEZZA – regia di Roberto Andò – recensione di Stefania De Zorzi

E’ il 1920: Luigi Pirandello/Toni Servillo fa ritorno per un breve periodo in Sicilia, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga/Renato Carpentieri. Arrivato a destinazione viene informato del recente decesso della balia della sua infanzia, Maria Stella, e decide di prendersi carico della sua sepoltura, affidata ai becchini Onofrio Principato/Valentino Picone e Sebastiano Vella/Salvatore Ficarra. Costoro si dilettano di teatro e hanno allestito un dramma-commedia, “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzo”, interpretato da alcuni abitanti del paese, da cui Pirandello prenderà ispirazione per la stesura di “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Roberto Andò dirige e in parte sceneggia, coadiuvato da Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, un film dall’architettura stratificata su diversi livelli.

C’è la commedia tinta di humour nero, animata dai giochi di parole e dalla verve del duo comico Ficarra e Picone, che lascia intravedere, seppure con leggerezza, la corruzione della pubblica amministrazione e la soggezione ai poteri forti: il disonesto impiegato comunale e la mafia del padrino locale da una parte, e la Chiesa del parroco dall’altro. Vi è poi il racconto delle vicende umane di Pirandello, tormentato dai ricordi della moglie pazza, temuto e incompreso da molti perché, parafrasando le parole dell’amico Verga, ha minato con una bomba le certezze del realismo; e l’intreccio con le peripezie amorose e teatrali dei due becchini-commediografi, circondati dall’umanità verace di un mondo piccolo-borghese che vede nel teatro un modo per re-inventarsi un’identità ed uscire, almeno per il tempo della messa in scena, dalle convenzioni soffocanti dell’epoca.

L’ultimo livello di lettura è quello alla radice dell’opera di Pirandello: la relatività della percezione che isola gli individui e vanifica gli sforzi di comunicazione, e la difficoltà a distinguere fra personaggio e persona, fra realtà e finzione.

La stranezza è il malessere da cui Pirandello si lascia prendere quando i fantasmi dei personaggi di un’opera ancora da scrivere sfilano nottetempo dinnanzi a lui nell’ampio salone, imprigionati nella sua mente: anche una volta saliti sul palcoscenico, nella sequenza finale della rappresentazione a Roma di “Sei personaggi in cerca d’autore”, rimangono comunque incastrati in un non-tempo dove tutto è già successo e continuerà a succedere, condannati per l’eternità ad un limbo in cui non possono vivere con autenticità le proprie emozioni.

Andò modula con maestria lo scivolamento progressivo dalla commedia al dramma e l’intreccio fra realtà e artificio, in un ammirevole gioco ad incastro che delizia e sorprende.

Il quadro è una Sicilia di inizio Novecento magnifica e decadente, superstiziosa e appassionata, fotografata in modo superbo da Maurizio Calvesi, fra la luce calda del giorno che si riversa su mura scrostate e vestigia barocche, e le ombre inquietanti del palazzo in cui si agitano gli spettri.

Molte sono le scene memorabili, da quella nel Comune, spazio immenso e kafkiano invaso da infiniti faldoni polverosi, con la macabra stanza dei “sospesi”, all’incontro breve e profondo con Verga, per giungere infine alle due rappresentazioni teatrali, l’opera farsa messa in scena dai becchini, e la prima dei “Sei personaggi”, laddove in entrambi i casi vita e teatro entrano in collisione.

Film assolutamente da vedere, per il connubio raro di una storia architettata con garbo ed intelligenza, animata da dialoghi di volta in volta arguti e dolenti, con un cast di attori grandiosi: non solo Toni Servillo, che interpreta il fascino ironico e la spigolosità inquieta di Pirandello con la solita naturalezza, o Renato Carpentieri, che riassume ore di letteratura italiana con poche magiche parole, ma anche Ficarra e Picone, interprete l’uno dell’anima di un uomo semplice e un po’ cialtrone, l’altro del dramma personale di una sorta di maestro di campagna che ambisce invano alla grandezza della creazione artistica.

novembre 2, 2022 at 8:29 PM 1 commento


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