Archive for aprile, 2013

Motorpsycho – Still life with eggplant ( cd – lp )

Puntuali come orologi svizzeri, tornano gli alfieri di Trondheim che, come (quasi) tutti gli anni, licenziano entro il primo quadrimestre un nuovo disco e annunciano un tour che puntualmente tocca anche la nostra penisola. Una consuetudine che coincide con l’avvento della primavera, un appuntamento divenuto piacevole tradizione per i fedelissimi fan della band.

In venticinque anni di carriera i Motorpsycho di colpi ne hanno sbagliati ben pochi, nonostante i continui cambi stilistici: se nella memoria collettiva restano impressi soprattutto gli irripetibili filotti di metà anni 90, anche in tempi recenti Hans Magnus “Snah” Ryan e Bent Saether (oggi assieme al batterista Kenneth Kapstad, subentrato nel 2005 allo storico Hakon Gebhardt) non hanno certo lesinato idee ed energie.

Per “Still Life With Eggplant” (traducibile in “natura morta con melanzana”) i Motorpsycho sono tornati ad incidere nello studio dove nel 1994 partorirono l’enciclopedico “Timothy’s Monster” (onorato tre anni or sono con una monumentale reissue composta da ben quattro cd), ed hanno accolto un secondo chitarrista, lo svedese Reine Fiske, classe 72, molto noto in Scandinavia nella scena psych-prog per i suoi trascorsi con i Dungen.

 

Contando soltanto cinque tracce, per una durata complessiva relativamente contenuta, circa tre quarti d’ora, “Still Life With Eggplant” risulta uno dei dischi più “maneggevoli” della band norvegese. I Motorpsycho confermano il perdurare di un invidiabile stato di salute, dimostrato sin dall’iniziale cavalcata elettrica “Hell”, un compendio che prende spunto dai riffoni hard rock primordiali dei Black Sabbath, attraversa lo stoner dei Queens of the stone age, aggiunge istinti melodici nelle linee vocali e, dopo l’inevitabile solo smaccatamente seventies, chiude con minimalismi di impronta hendrixiana.

Gli omaggi proseguono con la personale rilettura di “August”, un pezzo dei Love che (se la memoria non ci inganna) è la seconda cover inclusa in un album dei Motorpsycho, dopo la “California Dreamin’” che nel 1992 figurò in “8 Soothing Songs For Ruth”.

 

“Barleycorn (Let It Come/Let It Be)” parte bucolica, con il fingerpicking di Fiske in gran spolvero, e si apre prima in un portentoso ritornello e poi in sereni slanci strumentali, conducendoci verso gli sperimentalismi della più strutturata “Ratcatcher”, una mini suite di 17 minuti che ridisegna quegli scenari cosmico- psichedelici ben perseguiti anche in altri recenti lavori, arrivando a lambire i confini con il prog ed il free form jazz. E’ la parte più avventurosa del disco, dove i norvegesi rischiano di cadere nel solito peccato veniale, quello di specchiarsi troppo in sé stessi generando qualche lungaggine di troppo. Peccato assolutamente perdonabile, vista la maggiore sintesi messa in campo questa volta, che consente a “Still Life” di ergersi almeno mezza spanna oltre il coraggioso polpettone dello scorso anno, “The Death defying the Unicorn”.

Il viaggio si conclude fra le spire di “The Afterglow”, imperiosa ballad elettroacustica dal lieve retrogusto folkie, quasi un sollievo per le orecchie, sprazzi di placida tranquillità dopo le digressioni soniche dei quattro vichinghi.    

 

“Still Life With Eggplant” non ha l’immediatezza di “Blissard”, la rocciosità di “Demon Box”, né tanto meno riesce a replicare la potenza caleidoscopica di “Trust Us”. Al suo interno non ci sono una nuova “Vortex Surfer” o un inno alla “Kill Some Day”, nonostante questo è senz’altro inseribile fra le migliori prove di una band tanto prolifica quanto qualitativamente eccelsa. Una delle migliori degli ultimi venticinque anni. La migliore in assoluto per il sottoscritto.

Claudio Lancia (www.ondarock.it)

aprile 30, 2013 at 9:59 am Lascia un commento

Durutti Column – The return of Durutti Column / LC ( cd – lp )

Per chi conosce Vini Reilly e la musica dei Durutti Column solo attraverso alcuni frammenti della sua produzione, è giunto il momento di approcciare la sua maestosa produzione con un orecchio attento e curioso. Il suono cristallino della sua chitarra affidato all’elaborazione dell’Echoplex, le sommesse stratificazioni di ritmi e percussioni appena baciate da una flebile voce hanno infatti segnato indelebilmente un’epopea creativa di raro spessore: questa è musica che rasenta l’arte pittorica, capace di descrivere con dettagli minuziosi stati d’animo profondi e quasi al limite dell’inconscio.

Prodotto da Martin Hannett, l’esordio del progetto Durutti Column è il frutto proibito della new wave: i tormenti dei Joy Division avevano segnato profondamente un’era ricca di provocazioni culturali, Vini Reilly concedeva a una generazione segnata dal tormento e dall’irruenza civile, un luogo astratto dove creare nuovi mantra.
Definito come il ponte tra il post-punk e la musica di Debussy e Ravel, “The Return Of The Durutti Column” è un album unico il cui fascino si edifica su accordi di chitarra che hanno la leggerezza di una goccia d’acqua ricca di riflessi e ombre. Il tono austero delle composizioni si anima improvvisamente grazie a sonorità pungenti e dissonanze ricche di riverberi; che sia tinta di jazz (“Katharine”), gothic-rock (“Requiem For A Father”) o che sfidi la fragilità del pop in “Sketch For Summer”, la musica di Reilly si riversa in uno dei progetti più importanti della musica inglese.

Il suo secondo album “LC” è invece l’unico in cui, a dispetto delle critiche di molti osservatori, Vini Reilly replica le intuizioni dell’esordio coinvolgendo le splendide tessiture ritmiche di Bruce Mitchell.
Registrato su un Teac a quattro tracce prestato da Bill Nelson al chitarrista inglese, il disco si ricopre di tinte jazz e vanta di costruzioni più corpose, che lo rendono più raffinato.
L’impegno politico viene rimarcato dall’acronimo scelto per il titolo (“LC” sta per Lotta Continua) e da alcuni frammenti vocali, mentre una inattesa sensualità si agita dietro il flusso melodico di “Jacqueline” e di “Never Knows”, che rinnovano la grande energia dell’esordio.

La Gibson Les Paul di Reilly, venduta su eBay come icona di una rivoluzione musicale irripetibile, riecheggia nelle innumerevoli ristampe dei suoi album: dopo i due box con la discografia divisa in due ere distinte, ecco finalmente disponibili per il pubblico americano due ristampe digipak con le copertine e lo stile grafico originale.
A differenza delle suddette ristampe, a cura della label 1972, la Factory/Benelux propone invece per “LC” un doppio cd con altri 23 brani, tra cui compaiono demo versions, brani tratti dai singoli incisi su Sordide Sentimental, compilation e brani estratti dai quattro album su Factory dei Durutti Column: a voi la scelta.

Gianfranco Marmoro (www.ondarock.it)

aprile 29, 2013 at 3:57 PM Lascia un commento

Elles di Malgorzata Szumowska ( dvd e b-ray )

Anne ha un marito, due figli, una bella casa a Parigi. Anne è una giornalista del magazine “Elle” per il quale ha recentemente condotto un’inchiesta intervistando due studentesse che si prostituiscono. L’incontro con la polacca Alicja e con la francese Lola (che poi le rivelerà di avere un altro nome) la turba profondamente. Mentre un mattino sta tentando di trasformare le interviste in un articolo e intanto prepara la cena che vedrà come ospiti il capo del marito con sua moglie, quanto confidatole in quegli incontri si rivela sempre più perturbante.
Il rischio di realizzare l’ennesimo film di indagine/denuncia (magari un po’ hard) sul fenomeno di giovanissime studentesse che vendono il loro corpo mentre continuano a frequentare l’università c’era ma è stato abilmente bypassato. Perché questo non è un film su di loro ma è un’analisi dell’universo familiare di una donna solo apparentemente realizzata messo a confronto con scelte lontane dal suo sentire ma che, in modo del tutto inaspettato, ne sovvertono le fragili sicurezze. Senza la presenza della Binoche Elles avrebbe potuto assumere le caratteristiche di un film softcore con una vaga connotazione di tipo sociale. È grazie a lei e alla sua fisicità che invece si trasforma in un percorso nella psiche di una donna, di una madre, di una femmina. La si osserva quasi con stupore (per il coraggio avuto) con quel suo volto struccato da risveglio mattutino in un’età in cui la valorosa rinuncia al ritocco pone in evidenza i segni del tempo. Segni che marcano il personaggio, consapevole di una profonda sensualità matura ormai penosamente sublimata nella routine familiare. Con figli che si rifugiano nei videogame (il piccolo) o che dichiarano esplicitamente il loro desiderio di non fare la fine dei genitori (il grande). Il confronto con due ragazze che potrebbero essere anch’esse sue figlie la spinge a mettersi in discussione. La loro è una sessualità scissa, pronta a subire l’umiliazione ma anche consapevole del livello di finzione da adottare per poter resistere e andare avanti. Anche la sua vita (ormai pallida come il suo volto) abbisogna della menzogna per poter continuare sui binari di una quotidianità in cui solo la musica classica (radiofonica e quindi anch’essa scelta da altri nella sua sequenzialità) può costituire l’unico elemento di vitalità. A meno che il pensiero di una ribellione possibile lasci il solipsismo masturbatorio per tradursi in realtà. Ma non è così semplice.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

aprile 27, 2013 at 6:34 PM Lascia un commento

Ulidi piccola mia di Matteo Zoni ( dvd )

Paola sta per compiere 18 anni e negli ultimi quattro è stata ospite in una comunità lontana dalla famiglia. Fa ritorno a casa solo per brevi periodi. Figlia di un contadino emiliano e di una donna marocchina è cresciuta tra due culture. Ora deve cominciare a guardare al suo futuro che vorrebbe felice.
“Giuro che io salverò la delicatezza mia / la delicatezza del poco e del niente / del poco poco, salverò il poco e il niente / il colore sfumato, l’ombra piccola / l’impercettibile che viene alla luce / il seme dentro il seme, il niente dentro/ quel seme. Perché da quel niente/ nasce ogni frutto. Da quel niente/ tutto viene”. Con questi versi di Mariangela Gualtieri (da ‘Giuro per i miei denti da latte’ nel libro “Senza polvere, senza peso” edito da Einaudi) trasformati in canto si apre un film che prende spunto da uno spettacolo teatrale per affondare lo sguardo in una realtà che va sfiorata con la leggerezza di un battito di ciglia.
Mateo Zoni sa come posizionare una telecamera che sia capace di svelare non dimenticando mai il rispetto per i soggetti ripresi. Perché Paola, la giovane protagonista, sta compiendo un percorso di recupero da una profonda depressione. Ogni minimo ostacolo rischia di farla arretrare in maniera pericolosa. Zoni ce la rivela sapendo attendere. Lo spettatore non ha alcuna informazione preliminare su di lei e sulle sue compagne di comunità. Non ci sono cartelli esplicativi né voci off a descriverci dove la ragazza si trovi o perché sia lì.
Sarà lei, con il suo volto capace di illuminarsi e di rabbuiarsi nell’arco di tempo di pochi secondi, ad aprirci (con la delicatezza di cui sopra ma anche con scatti di ribellione adolescenziale) le porte della sua storia e a farci comprendere cosa stava alla base del suo autolesionismo (che talvolta tuttora riemerge). È un’ulidi (che in Marocco significa ‘piccola mia’) che necessita di cure come una pianta fragile ma che non ha rinunciato a cercare di affondare le radici in un terreno più solido di quello che le è toccato in sorte.
In un’epoca di pessimismo cosmico opere come questa ci ricordano che una luce in fondo ai tunnel individuali può esserci e può essere raggiunta. Senza happy end posticci ma anche senza arrendersi a priori a una comoda (per chi non vive i problemi) ineluttabilità.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

aprile 26, 2013 at 3:40 PM Lascia un commento

Per una vita migliore di Chris Weitz ( dvd )

 

Cominciamo dalla nomination agli Oscar 2012 come miglior attore a Demian Bichir, e nel dire che è stata meritatissima, perchè tutto il film scorre sul suo volto, tavolozza di emozioni e sentimenti sinceri, capace di farci percepire il suo faticoso vivere con pochi tocchi espressivi. Carlos Galindo, giardiniere messicano a Los Angeles, dove vive senza permesso di soggiorno e di lavoro, cerca di assicurare al figlio Luis un futuro migliore, pagandogli le scuole e cercando di trasmettere al ragazzo dei sani principi, primo fra tutti l’onestà. La fatica di quest’ uomo semplice e coraggioso, che ha cresciuto il figlio da solo e che non ha paura di rischiare la vita ogni giorno arrampicandosi sulle palme da potare  con una precaria imbragatura solo per assicurare un avvenire a Luis, è tutta in quel corpo provato che ogni sera Carlos abbandona sul divano, è nel suo sguardo umile ma non rassegnato, è nel coraggio di comprare un camion e guidarlo senza patente pur di metter da parte soldi sufficienti a far cambiare scuola al figlio che frequenta gli ambienti vicini alle gangs, a tratti perfino affascinato dal potere che quei piccoli boss tatuati, che fanno la spola fra la strada e il carcere, esercitano sugli adolescenti. E proprio Luis, con le sue risposte sprezzanti, col suo rifiuto della cultura e delle tradizioni messicane, con la sua rabbia adolescenziale e con la sua incapacità di comprendere la mansuetudine e la tolleranza del padre, fa da contraltare all’integrità di Carlos, modello troppo “debole” per un quindicenne inquieto. Quando il furgone su cui Carlos ha riposto tutte le speranze per la loro “better life” verrà rubato i conflitti fra Luis e il padre si acuiscono – Luis aggredisce fisicamente il ladro mentre Carlos ha un atteggiamento molto più conciliante che sconcerta il figlio –  salvo poi trasformarsi quando finalmente Luis capisce cosa il padre abbia fatto, e sia ancora disposto a fare, per dargli un futuro. Emozionante nella sua semplicità “A better life” ha il pregio di dare dignità al sacrificio oscuro, quello silenzioso e quotidiano che un genitore compie senza aspettarsi niente in cambio, se non la felicità di un figlio, e sa dare spessore ad un rapporto complesso e conflittuale come quello che Luis ha con Carlos, con pudori e premure nascosti e quasi negati, ma sempre ben visibili a chi sa guardare oltre i gesti bruschi e le parole imbarazzate. Grande prova d’attore di Bichir dicevamo, ma anche il giovane José Juian accompagna il suo Luis con fragilità e spavalderia tipiche degli adolescenti, e il dialogo finale in carcere, dove Carlos sta aspettando di essere rimpatriato in Messico, e dove Luis scopre che la verità è sempre lontana dalle apparenze, ha il sapore di una crescita e di una riscoperta, di se stessi e di quei valori sani e onesti che possono portare un uomo ad essere sconfitto, dalla burocrazia e dal destino, ma non a fargli perdere la propria dignità. Eredità ricchissima per un ragazzo che voleva solo fare soldi facili.

aprile 24, 2013 at 4:01 PM Lascia un commento

Un mostro a Parigi di Bibo Bergeron ( dvd e b-ray )

Parigi, 1910. Raoul ed Emile, nel compiere una consegna in un giardino botanico che è anche laboratorio per esperimenti, involontariamente mescolano due composti, uno per ingigantire e l’altro per vellutare le corde vocali, bagnando una pulce. Diventata immensa la bestia fugge per tutta la città creando lo scompiglio e mobilitando le forze dell’ordine guidate da un bieco prefetto. Nascostosi nel retro di un Club la bestia incontra Lucille la quale rimane conquistata dalla nobiltà d’animo espressa dal suo canto e usando un travestimento la prende a suonare e cantare nel suo spettacolo.
Lucille, Raoul, Emile e la creatura ribattezza Francoeur (cuore onesto) dovranno però sfuggire alle indagini del prefetto e ai suoi tentativi di trovare il mostro che terrorizza la città e così spostare l’attenzione pubblica dalle proprie malefatte.
Parigi è stata negli anni scenario di diversi film d’animazione di cui almeno un paio targati Disney (sia in qualità di produttore che di principale distributore) come Ratatouille Gli Aristogatti, e il medesimo binomio sembra essere quello che regge Un mostro a Parigi, l’unione cioè dell’immaginario parigino di inizio secolo con una storia dallo scheletro (e dal senso per la musica) puramente disneiani.
Eppure, nonostante alla direzione ci sia Bibo Bergeron, francese d’America al lavoro da decenni per Hollywood e regista di Shark Tale, e nonostante la produzione sia interamente francofona, lo stesso il nuovo cartone della Europa Corp di Luc Besson ha il difetto di utilizzare Parigi, la musica e il retaggio di altri racconti e altre fascinazioni (in primis quella del fantasma dell’Opera) a proprio vantaggio come scenario e non come spazio in cui agire. Invece che creare l’ambiente e le sensazioni che vuole, il film sfrutta i riferimenti alle opere più note che l’hanno fatto in precedenza. Un mostro a Parigi infatti reimmagina la geografia della città, ne cambia la toponomastica e si disinteressa del suo animo perchè gli serve solo la sua mitologia, quella stabilita, costruita e canonizzata da altre opere d’arte, come del fantasma dell’Opera gli serve solo la maschera e la possibilità di appoggiarsi all’eco romantico che quella suggestione è in grado di sprigionare.
Ed è un peccato perchè per il resto, nonostante qualche momento più stanco e fiacco nella seconda metà, la storia della pulce mutata che voleva essere una star del vaudeville è carina e dinamica. Non vuole di certo conquistare chissà quali primati Un mostro a Parigi, se non quello facile da raggiungere di intrattenere senza stupire, ammaliare senza innovare e per gran parte della sua durata ci riesce, infilando una dopo l’altra gag semplici che non si sporchino le mani con sentimenti reali, personaggi complessi o tentativi audaci.
Con precisione alchemica Bergeron mescola momenti di divertimento con quel quoziente di paura e tensione che spesso anima la narrativa per l’infanzia, utilizza soluzioni registiche da horror e addirittura riadatta la soggettiva dei salti nel cielo già vista in Thirst di Park Chan Wook (e nel seminale cortometraggio del 1984 Jump di Osamu Tezuka), allungandoli con il massimo dell’innocua innocenza romantica, vellutata dalle canzoni cantate da Vanessa Paradis (sia nella versione inglese che in quella francese) e scosse dalla solita azione da cartone animato fino alle punte più alte della città come ad imitare King Kong.

Gabriele Niola (www.mymovies.it)

aprile 22, 2013 at 10:20 am Lascia un commento

Bonobo – The North Borders ( cd – lp )

Leggere la news di un nuovo album di Bonobo, nel 2013, suscita inevitabilmente una non-risposta annoiata, imposta dall’immediata associazione del marchio all’ordinaria amministrazione di un chill-out vetusto e prevedibile. Nulla contro il buon Simon Green, peraltro autore di numeri tutt’altro che disprezzabili anche negli ultimissimi anni, piuttosto la reazione dettata in parte dall’indigestione downtempo di qualche lustro fa, ancora da smaltire, in parte dal marciare sempre più asfissiante di mode e hype che invecchia tutto a velocità doppia. Accantonata però questa falsa percezione iniziale, l’album numero sei della scimmietta di casa Ninja Tunes è un ascolto che merita. 

Parte con una marcia tutta diversa, infatti, questo “North Borders”: “First Thought”, bozzolo pop di una freschezza sorprendente, con l’altro veterano dell’etichetta, Grey Reverend, alla voce, il luccicante carosello glitch-techno di “Cirrus”, la calda “Heaven For The Sinner”, segnata irrimediabilmente dai vocals di Erykah Badu, prezzemolino sempre ben accetto, o ancora il trip-hop sonnacchioso e gentilissimo di “Towers”. Beats e groove tessono maglie mai così “black”, eppure sempre morbide e discrete, addolcite dalle frequenti chiose jazz e orchestrali, arpe e archi, come da tradizione Ninja Tunes. La seconda metà dell’album rivela anche alcuni riempitivi (“Know You”, “Ten Tigers”, “Pieces”), senza guastare però la compattezza del lavoro e mantenendosi in qualche modo sempre sulla soglia della piacevolezza e della goduria disimpegnata.

Con “The North Borders” Bonobo aggiorna la sua ricetta in maniera efficace, aggirando il rischio spersonalizzazione e aprendosi senza troppa difficoltà un varco tra i più chiacchierati lavori ultimi di Four TetFlying Lotus e, al netto del sostrato “dark”, di William “Burial” Bevan. Lo scimpanzé antropomorfo, maschera del timido Green, ha messo a segno così un altro, inaspettato, colpo di coda.

Roberto Rizzo (www.ondarock.it)

aprile 20, 2013 at 5:46 PM Lascia un commento

RECORD STORE DAY

 

Quando vorresti che un’eccezione diventasse una nuova regola, una nuova abitudine.

Il Record Store Day arriva una volta all’anno, in un giorno di aprile in cui il nostro Alphaville lustra le gloriose insegne, arricchisce gli scaffali e si unisce a quel fiero plotone di indipendenti che in tutto il mondo celebrano il disco. Da Rough Trade East a Third Man Records passando per Honest Jon’s Records e tutte le realtà (a chiamarli “punti vendita” saltan fuori pruriti allergici) che credono, prima ancora che nel supporto, nella musica. Senza di lei il solco è vuoto e il laser impressiona una superficie inerme. Quando invece su quel dischetto di plastica ora tanto demodè e su quel generoso e scuro padellone si schiantano i suoni che amiamo, quelli che ci cullano o ci eccitano, quelli che ci fanno sentir vivi o ci consegnano alle tenui ombre di un terrestre oblio, allora ci accorgiamo che tutto ha più senso. Ha senso la fisicità di un feticcio che domani, sabato, sarà il fulcro di un tributo quasi universale. Ha senso l’artwork che stringe dentro sè l’esotismo di suoni esclusivi, rari. Pepite da coccolare e conservare in un mondo in cui il suono è anche ingombrante sovrastruttura.

I dischi invece ci insegnano che il suono talvolta sa persino farsi da parte, amante incestuoso del silenzio. Il suono sa imitare il rumore, se vuole, oppure è capace di mutare forme, allucinatorio nettare psichedelico. Ebbene, questi dischi, queste pepite hanno nomi, cognomi, sigle, pseudonimi. Si chiamano Nick Drake, Velvet Underground, Verve, Ben Harper, Grateful Dead, King Creosote, Bruce Springsteen… E hanno altri nomi ancora, magari meno altisonanti ma non per questo meno preziosi. Sono loro le pubblicazioni esclusive del Record Store Day 2013.

Il groove è misterioso e gira, pungolato dalla sottile puntina. Si ascolta, si interpreta. Per  accoglierlo servono orecchie capienti e cuori allenati. Poi ognuno di noi chiuderà il cerchio a suo modo: sognando, immaginando, uscendo da sè stesso. Mentre il disco gira, gira, gira…

Emiliano Raffo

aprile 19, 2013 at 9:55 am Lascia un commento

Iron & Wine – Ghost on ghost ( cd – lp )

Sento decisamente che la scuola d’arte mi ha dato questa cieca spavalderia, un coraggio naïve, perché ha instillato in me l’idea che vali solo quanto sarai in grado di fare la prossima volta.
Sam Beam

È proprio così? Difficile dirlo. A volte si ha invece l’impressione che le armi a disposizione siano limitate, che improvvisarsi diversi da quello che si è sia un atto coraggioso ma inutile, e controproducente. Ma Sam Beam. questo, lo sa benissimo. Sa di poter contare sulla sua voce, sulle sue doti di raffinato regista di melodie ed emozioni. E, ora che gli anni da “professionista per caso” cominciano ad accumularsi e il vestito da solitario singer-songwriter comincia a diventare liso, come fare a dare nuova vita alla propria traiettoria d’artista?
Il soul, a pensarci bene, sembra l’ambientazione d’elezione per un cantautore come Iron & Wine, per le sue composizioni, così fluide ed emotive. Molto più delle contaminazioni world e latine che avevano caratterizzato la musica di Beam da “The Shepherd’s Dog” fino al poco ispirato e confuso “Kiss each other clean” (qui c’è in realtà un parziale ritorno nella comunque piacevole “Caught In The Briars”). Qui il contorno – la batteria jazz, le seconde voci, il pianoforte – pare misurato con estrema precisione, a creare un omaggio agli anni 70 del soul, appunto, e alle prime contaminazioni tra jazz e cantautorato.

“It all came down to you and I”: come dichiarato dallo stesso Beam, è la coppia il tema centrale del disco, dalle ombrose, teatrali “Singers And The Endless Song” e “Low Light Buddy Of Mine”, che sembrano ambientate nella “Hadestown” di Anais Mitchell, al Marvin Gaye di “The Desert Babbler”, nella quale viene fuori sicuramente il meglio che la musica di Iron & Wine possa offrire. Quando la voce di Beam si invola sui suoi falsetti di velluto (“New Mexico’s No Breeze”), o scivola nei suoi gorgheggi di usignolo (“Joy”), si capisce subito che la magia di Iron & Wine è tornata, più limpidamente che mai.
L’universalità è un tratto fondamentale e dichiarato della musica di Beam, e anche in “Ghost On Ghost” l’empatia con canzoni d’innamoramento giovanile, come la stupenda “Baby Center’s Stage”, è acuita dal contorno di archi, slide, pianoforte, in un brano che definisce il genere “soft Americana”.

L’acustica diventa definitivamente uno strumento ausiliario (un frinire sommesso in “Grace For Saints And Ramblers”), dimenticato anche quando sarebbe stato sufficiente un arpeggio come accompagnamento (e invece si trasforma in un “a cappella” in “Sundown (Back In The Briars)”). Ma il passaggio è indolore, qui, per la grande attenzione all’unitarietà del disco e alla complementarietà degli arrangiamenti, che, anzi, danno grande respiro alle composizioni più verbose di Beam, come nella gentilemente montante, fino a una jam tra percussioni e sax, “Lovers’ Revolution”.

Ed è così che il proposito di Iron & Wine diventa più che altro un monito per gli ascoltatori: attenti, perché qualsiasi dei suoi prossimi dischi potrebbe essere il suo migliore.

Lorenzo Righetto (www.ondarock.it)

aprile 17, 2013 at 10:06 am Lascia un commento

Ernest e Celestine di Vincent Patar e Benjamin Renner ( dvd )

Nel mondo degli orsi è impossibile fare amicizia con un topolino. La diffidenza è ai massimi livelli. Peraltro nel mondo sotterraneo dei topi l’orso rappresenta il peggiore dei pericoli che si possano incontrare. Inoltre il futuro dei più piccoli è già segnato. Dovranno tutti accedere alla professione più necessaria: il dentista. La giovane Célestine, un’orfana con il desiderio di diventare pittrice, sfugge al mondo opprimente dei topi e incontra l’orso Ernest, clown e musicista.
All’origine di questo delizioso film di animazione, presentato alla Quinzaine des Realisateurs al Festival di Cannes, ci sono i libri disegnati da Gabrielle Vincent e tradotti in molti paesi del mondo. Nate all’inizio degli anni Ottanta le avventure dell’orso Ernest e della topolina Célestine conservano il talento di pittrice e narratrice a partire dal quotidiano della loro creatrice. A questa già più che efficace modalità di narrazione si aggiunge il talento di uno dei più famosi scrittori francesi, Daniel Pennac. La sua sceneggiatura è rispettosa della fonte originale e, al contempo, memore di quando leggeva all’allora sua figlia piccola le storie della Vincent divenendo per lei il buon orso artista. Non è facile trovare un’animazione così raffinata e al contempo capace di parlare al cuore e alla razionalità di adulti e bambini. Perché il discorso sul pregiudizio passa attraverso una storia di amicizia che il mondo ritiene impossibile conservando un ancoraggio alla realtà (una su tutte la scena del tribunale) ma trasfigurandolo attraverso quella poesia del tratto e dello sguardo che troppo spesso rischiamo di dimenticare travolti come siamo da immagini senz’anima. Un’anima che invece hanno sia Benjamin Renner (alla sua prima esperienza nel mondo dell’animazione) e i già rodati suoi co-realizzatori Vincent Patar e Stéphane Aubier (Panico al villaggio).

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

aprile 15, 2013 at 10:13 am Lascia un commento

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