Archive for settembre, 2011
Thor di Kenneth Branagh ( dvd e b-ray )
Figlio primogenito del potente Odino, Thor è destinato a salire al trono di Asgard ma la sua foga e il desiderio di affermarsi in battaglia lo spingono ad un’azione avventata che, non fosse per l’intervento salvifico del padre, rischia di mettere a repentaglio la pace e la sicurezza del suo regno. Affranto per la delusione procuratagli dall’inadeguatezza del figlio Odino decide di scagliarlo sulla Terra, privato dei suoi poteri e impossibilitato ad usare Mjolnir, il suo micidiale maglio. Almeno fino a che non sarà in grado di usarlo con giudizio.
Caduto nel nostro mondo il dio nordico si imbatte, nel vero senso della parola, in un gruppo di ricercatori che indagano i curiosi eventi atmosferici che hanno luogo nel New Mexico e in particolare in un’astrofisica dal sorriso facile. Intanto nel regno di Asgard il fratello Loki approfitta di un malessere del padre per salire al trono.
Atteso con la curiosità che merita l’ingresso nel mondo delle pellicole commerciali e fracassone di un regista e attore noto al cinema per i suoi adattamenti shakespeariani, Kenneth Branagh conferma l’idea preconcetta che pubblico (e probabilmente produzione) avevano di lui. Il suo Thor attinge a piene mani da diverse mitologie shakespeariane, dalla lotta per la successione, agli intrighi di palazzo, dall’uccisione del regnante da parte di un familiare fino all’amore proibito tra due amanti appartenenti a mondi separati. Come previsto tra simili argomenti il regista si muove con agilità, ma quando l’epica delle relazioni nel mondo dei nobili deve necessariamente tramutarsi (vista la tipologia di film) in grande epica d’azione, il film mostra tutte le sue debolezze.
Se infatti nel mondo di Asgard il mito trova, sebbene a fatica, una dimensione filmica propria, sulla Terra il film funziona molto meno, incastrato com’è in un New Mexico edwoodiano dal sapore anni ’50 che calza male l’occasione. A questo si aggiunga che l’alchimia tra il gigantesco (e solo per questo azzeccato) Chris Hemsworth e la minuta scienziata Natalie Portman, interessante proprio per la lontananza fisica, sulla pellicola non si realizza mai del tutto e il loro rapporto è trattato con sbrigativa banalità, per andare a concentrarsi il prima possibile sulla rapida frustrazione del desiderio d’unione dei due.
Di contro la parte che dovrebbe beneficiare da questa contrazione, quella d’azione fantascientifica, è messa in piedi con uno stile che ricorda i film anni ‘90 sul genere, con un uso straniante dei costumi e delle inquadrature sghembe che appare in contraddizione con l’esigenza (e le velleità) di grande epica d’azione. In questo modo alla fine, il desiderio di un cinema in grado di unire alto e commerciale, classico e moderno, teatrale e computer grafica si infrange proprio sul terreno più determinante, quello del respiro epico.
Gabriele Niola (www.mymovies.it)
settembre 28, 2011 at 5:27 PM alphavillepc2 Lascia un commento
Poetry di Chang-Dong Lee ( dvd )
Quando il cadavere di una ragazza affiora dalle acque di un fiume, qualcosa nella quotidianità di Mija – badante part-time affetta da alzheimer – si incrina man mano che scoprirà di più sulle ragioni che hanno portato al suicidio della giovane.
La morte scorre sul fiume, placido ma incessante, e la tranquilla vita di provincia, fatta di routine e coazioni a ripetere, viene turbata dal macabro inaspettato, cercando disperatamente di riassorbirlo nella propria bambagia protettiva. Chi era già al di fuori – come la sensibile Mija, nonnina smemorata che tende a soffermarsi su particolari per i più insignificanti, come la quiete degli alberi o il colore dei fiori – paradossalmente possiede gli strumenti, o gli anticorpi, necessari per misurare l’orrore come merita. Dopo i travagli religiosi di un’altra protagonista femminile, squassata dal lutto, in Secret Sunshine, Lee Chang-dong si sofferma ancora sulla provincia coreana per indagare sui semi del male – provincia e male, cadaveri sul fiume, quasi fossimo di nuovo a Twin Peaks – piantati da una società indolente nel suo vuoto di ambizioni e asservita al denaro come unico scopo della propria esistenza. In Secret Sunshine la crisi personale di una donna viene affrontata attraverso il suo rapporto conflittuale con la religione cristiana, in Poetry il travaglio è passaggio imprescindibile per approfondire l’esperienza sensibile (e quindi artistica). La poesia, anche ridotta alla sua forma più elementare, è per Mija il motore della riscoperta del sentimento nei luoghi e nelle sue manifestazioni più inattese. La macchina da presa, mossa da Lee con il giusto garbo e il minimalismo di chi sceglie di osservare anziché di trascinare via con sé, si adegua al ritmo di Mija e al suo percorso lento, sofferto e soggetto agli sbalzi di una memoria ingannatrice; una via tortuosa e collaterale alla (sua) verità, che arriva dove si ferma quella dritta e immediata.
Dopo aver sconvolto la consecutio dell’intreccio per indagare nel rimosso di un popolo in Peppermint Candy, Lee Chang-dong scardina una volta ancora le regole non scritte della narrazione, alterando il ritmo di un cinema che – in Corea come in Occidente – procede spedito, a marce (spesso inutilmente) forzate. Poetry sembra quasi un controcanto di Mother, un altro dei più importanti film coreani degli ultimi anni, anch’esso incentrato su una donna anziana in difficoltà. Pattern solo apparentemente analogo, dalle conclusioni opposte: dove Bong Joon-Ho insegue archetipi che rimandano al classicismo della tragedia greca, Lee resta vicino all’uomo e al particulare, prediligendo la via della semplicità.
Sorretto dall’interpretazione strabiliante di Yu Junghee, tornata a recitare appositamente per lui, Lee Chang-dong aggiunge un altro poderoso capitolo alla sua inquietante indagine nelle pieghe meno gradevoli dell’animo umano.
Emanuele Sacchi (www.mymovies.it)
settembre 26, 2011 at 6:59 PM alphavillepc2 Lascia un commento
Comme dans une boule de neige ( Omaggio ad Alphaville )
“Una MacchinafabbricaSogni nata per ricambiare chi mi ha insegnato la bellezza del sogno e la determinazione nel realizzarlo, per continuare a sognare insieme…
E’ semplicissima da usare, basta chiudere gli occhi e soffiare esattamente come davanti alle candeline di una torta di compleanno, con una meraviglia in più la dreamingmachine non si esaurisce mai basta voler continuare a sognare!”
forse il cinque dicembre 1981 il silenzio avvolgeva la città.
forse il cinque dicembre 1981 nevicava e, per questo, il silenzio che avvolgeva la città era nuovo e carico di aspettative sonore.
forse è per queste immagini del cinque dicembre 1981- che esistono solamente nella mia fantasia – che se penso ad Alphaville la prima sensazione che provo è quella di essere “comme dans une boule de neige” avvolta da sogni che solamente il silenzio può generare.
Alphaville nei miei pensieri è l’immagine del silenzio perfetto pronto ad accogliere qualsiasi suono, e la sensazione primaria del bianco e nero che contiene ogni colore; E’ passare ore semplicemente seduta nella piazzetta con le gambe incrociate, ero molto giovane e bastava l’insegna con quell’immagine onirica per passare il tempo a sognare – proprio come difronte ad una boule de neige e al suo silenzio – cosa o chi avrei voluto incontrare in quella dimensione speciale. Per poi entrare dentro Alphaville, varcare la soglia, parlare quasi sottovoce, muoversi come in un’incubatrice di suoni primordiali con il silenzio che svanisce, e i suoni accompagnano passi e pensieri, e i sogni non sono più necessari.
Questa è la vera meraviglia di Alphaville e di questi suoi primi trent’anni, se una boule de neige è solamente un’immagine invalicabile, un desiderio irrealizzabile, Alphaville è un sogno che si è realizzato e che sopratutto ha coltivato immagini e suoni e generato sogni e passioni. E’ una preziosa boule de neige incastonata nella città in cui si può entrare, in cui si può vivere, sognare, creare, crescere, e da cui si può uscire per ritornare nel caos della realtà con un nuovo silenzioso sorriso, il passo leggero e una sottile nevicata di sogni tra i pensieri.
Ed è proprio per tutti i sogni che Alphaville mi ha regalato, che in questo suo trentesimo compleanno non potevo non ricambiare con una piccola DreamingMachine per continuare a sognare insieme, anche perchè trent’anni quest’anno li compiamo in due.
settembre 24, 2011 at 4:14 PM alphavillepc2 Lascia un commento
Boris il Film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo
René Ferretti ha fatto tanta brutta televisione. Ad essere precisi l’ha subita, per ottemperare alle richieste al ribasso delle produzioni, alle ridotte capacità professionali della sua troupe storica e all’immensa negazione degli attori a sua disposizione, paragonabile soltanto alla misura dei loro capricci. Eppure, un giorno, il momento di dire “basta” arriva anche per lui, di fronte alla richiesta di girare a ralenti la corsa nei prati di un giovanissimo Ratzinger. Tutti a casa, tutti in crisi, tutti in bolletta. Almeno finché il cinema non bussa alla porta. A Ferretti non sembra vero: un film in pellicola, serio, di denuncia. L’adattamento del saggio best-seller “La Casta”, il racconto di sprechi, scandali e privilegi immotivati della classe politica italiana. Peccato che il mondo del cinema non sia molto diverso…
Il salto di Boris dal piccolo al grande schermo, ma soprattutto da un pubblico di nicchia al grande pubblico, “laurea” definitivamente i suoi tre autori con lode, per l’umorismo finissimo (anche laddove fa della volgarità il suo humus), lo sguardo implacabile, la scrittura diretta e coraggiosa, la capacità di scelta (nell’abbondanza da loro stessi prodotta, in fase di sceneggiatura e di riprese) e soprattutto l’eleganza e la coerenza con cui sono passati dal ritrarre la televisione in televisione al fotografare il cinema nel cinema. Non di parodia si tratta, infatti, spessissimo, ma di fotografia vera e propria, ritoccata ad arte e virata sul comico.
Sono tante le battute o le scene del film che potrebbero essere estrapolate come costole per offrire un’idea dell’organismo nel suo insieme; dal produttore cinematografico che spiega: “non c’ho i sordi per tutta ‘sta sensibilità”, al regista che paventa: “non si esce dalla televisione, è come la mafia, non se ne esce se non morti”. Ma è nella scena in cui Antonio Catania alias Lopez immagina il destino di René qualora lo abbandonasse per passare alla concorrenza e, dopo avergli fatto chiudere gli occhi, gli riappare davanti uguale identico a pochi secondi prima esclamando: “eccola la concorrenza!”, che il film si rivela maggiormente. Nella terribile verità di quello sketch ci sono, infatti, sia un’indicazione di tono, cinico, dissacrante, spoetizzante, sia l’indicazione sulla natura dell’umorismo in gioco –si ride per non piangere- sia la lucidità e la schiettezza di sguardo e parola rispetto all’argomento trattato, vale a dire lo stile, che fanno di Boris qualcosa di unico in Italia.
La prima vera serie televisiva italiana di qualità (che aveva per soggetto la pessima qualità della televisione italiana) si congeda dagli schermi, parrebbe, con questo maxi episodio dedicato al mondo del cinema nostrano, massacrandone il mito con straordinaria capacità di sintesi e umorismo, nonostante il cinema non solo abbia già raccontato spesso il suo dietro le quinte ma soprattutto abbia sempre avuto maggior autoironia rispetto alla nipotina televisione. Marilita Loy, l’attrice che ha fatto della sua insicurezza un’arma micidiale e parla così piano che non la sente nemmeno il microfono, o la combutta di scenografo, segretaria di edizione e direttore della fotografia, che stanno sul set di René per i soldi ma poi lo piantano in asso per andare a fare Virzì, “Valdo e l’acqua cotta”, sono cose che non si dimenticano e restano “negli occhi del cuore”. Quando arrivano Biascica, Itala, Duccio e Lorenzo, su un’utilitaria strombazzante, non si può che fare il tifo per loro: non i criptocialtroni ma i cialtroni veri.
Non si esce dalla televisione, René.
Marianna Cappi (www.mymovies.it)
Le quattro volte di Michelangelo Frammartino ( dvd )
Un vecchio pastore ammalato conduce con fatica le sue capre al pascolo sui monti della Calabria. La cura che ogni sera beve è data da della terra argillosa che una donna gli consegna nella sacrestia della chiesa dopo averla benedetta e incartata in una striscia di giornale. Una capretta nasce e con fatica muove i suoi primi passi nella vita. Una sacra rappresentazione della Passione di Cristo percorre la via centrale del paese; Un albero della cuccagna viene issato. Il tempo scorre.
Michelangelo Frammartino, a sette anni di distanza da Il Dono , torna a leggere e a proporci il volto antico della Calabria. Lo fa con il pudore di uno sguardo che osserva una realtà in parte senza tempo con il desiderio non di proporla retoricamente come modello ma con la voglia di preservare una memoria che rischia di scomparire. L’anziano pastore che si cura con una pozione di terra benedetta la tosse che gli devasta i polmoni non è presentato come un pazzo ignorante. Lo seguiamo invece con affetto condividendone le fatiche quotidiane.
È un cinema sicuramente debitore nei confronti di Piavoli quello di Frammartino soprattutto quando si immerge nella Natura ancora incontaminata dei monti calabri. Sembra quindi quasi di compiere un sacrilegio quando, dinanzi a tanta pulizia e profondità estetica e a una così alta sensibilità di osservazione nasce un quesito. Ci si chiede cioè se in questo mondo arcaico la modernità si sia fermata ai mezzi di trasporto e se, olmianamente, il tempo si sia fermato non consentendo l’arrivo non diciamo di Internet ma del più accessibile dei media: la televisione.
Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)
settembre 12, 2011 at 5:44 PM alphavillepc2 Lascia un commento
The next three days di Paul Haggis ( dvd e b-ray )
John Brennan, la moglie Lara e il loro piccolo Luke fanno colazione con amore e con gioia, quando la polizia irrompe con un mandato d’arresto per omicidio a carico della donna. Per tre anni, il marito le fa visita quotidianamente, certo che sia tutto un abbaglio, che la giustizia le ridarà la sua casa e la sua vita. Persino più certo della moglie, che lei quell’atto non l’abbia commesso, che non avrebbe mai potuto. Quando anche l’ultimo appello viene respinto e Lara tenta il sucidio, John, tranquillo insegnante di letteratura e padre di famiglia, decide che se non sarà la legge a fare uscire sua moglie di prigione, sarà lui.
È così che Russel Crowe impegna la sua beautiful mind per trovare il modo di far evadere Lara dal carcere di massima sicurezza di Pittsburg. Sa che per farlo dovrà insozzarsi le mani, scendere nei bassifondi, usare la violenza. Alla fine, l’inquadratura lo coglierà allo specchio, col viso sporcato da tre macchie della superficie riflettente. Questo è Paul Haggis: poche parole, immagini esplicite. È la strada più difficile? Permetteteci il dubbio.
Remake del francese Pour Elle, The next three days ha offerto la possibilità allo sceneggiatore Haggis (Million dollar baby, Flags of our fathers) di continuare sulla strada di una regia intesa come organizzazione di sguardi. Questa volta persino con il sostegno di una giustificazione narrativa forte: cosa determinerà il successo o meno del piano folle (in senso donchisciottesco) del protagonista? La sua capacità di osservazione, è ovvio. Ma il passaggio da una scrittura di ferro – ambito in cui Haggis non difetta, anche se non è questo il caso da portare ad esempio, trattandosi di fatto di una riscrittura – ad una regia che non sia solo la sua messa in azione, per quanto virtuosistica e spettacolare, come quella che piace al nostro soggetto, non è un passaggio scontato. Necessita, appunto, di un di più che non è mai mancato a Eastwood (per usare un eufemismo) e manca da sempre a Haggis. Non bastano certo qualche citazione cinefila, dai Soliti sospetti o da Match point, o qualche tentativo di alleggerimento (i poliziotti che scherzano malamente sul loro ruolo al cinema) per dare un’anima al proprio lavoro. Non è cosa che si prende a prestito.
Film dalla tensione straordinaria, quasi schiacciante, si risolve nel chirurgico, logorante, semiperfetto scioglimento della stessa, senza che ci sia concesso aspirare a un lascito in più, a un dono imprevisto e gratuito. Haggis è un finto sentimentale: parla di grandi sentimenti ma ne controlla al millimetro la condivisione.
Marianna Cappi (www.mymovies.it)
settembre 8, 2011 at 10:29 am alphavillepc2 Lascia un commento
Britannica di Blue Bottazzi
Britannica
I Beatles del punk furono i Sex Pistols, e tanto il loro look quanto la violenza musicale del loro show rappresentarono un’ispirazione per le altre band, come i Clash, messi assieme da un Joe Strummer folgorato da un loro show. Ma l’ambiente da cui il punk e la new wave presero le mosse, quello dei piccoli club come alternativa agli stadi e alle arene, quell’ambiente era stato forgiato dalla vivace scena musicale underground della prima metà degli anni settanta a cui fu affibiato il nome di Pub Rock dall’abitudine dei gruppi di esibirsi in pub vittoriani spaziosi e frequentati come l’Hope and Anchor. In precedenza la musica che si ascoltava in questi locali era il folk acustico oppure il jazz; esattamente la stessa situazione di una decina di anni prima ai vagiti della scena R&B londinese di Rolling Stones, Animals, Yardbirds e compagnia. Si racconta che la prima band pub rock fu un gruppo country americano, gli Eggs Over Easy, che arrivati per un tour inglese rimasero invece come gruppo fisso di un pub a nord di Regents Park, il Tally Ho. Gli Eggs Over Easy non ebbero mai la soddisfazione di un successo discografico ma conobbero una forte popolarità locale presso i frequentatori del pub, di cui presto fecero parte anche i membri di una band inglese la cui leggenda superava di molto il successo, i Brinsley Schwarz di Nick Lowe e Ian Gomm. I BS iniziarono a dividere il palco con gli Eggs, richiamando altro pubblico ed altri musicisti che finirono per allargare la cerchia agli altri grandi pub della zona. I BS erano (stati) un gruppo di talento lanciati con enfasi a suo tempo dalla casa discografica, la Capitol, che addirittura pensò di farli esordire pubblicamente al Fillmore East di NYC in apertura a Van Morrison e QuickSilver Messenger Service (dischi recenti: Moondance e Happy Trails, per capirsi) e trasbordando i giornalisti musicali inglesi, allora piuttosto potenti, in aereo appositamente per l’occasione. Stiamo parlando dell’anno di grazia 1970, quando la globalizzazione era di la da venire ed il mondo era enormemente più vasto di oggi. Il gruppo non ebbe successo, ma continuò per diversi anni ad incidere dischi ed a suonare nella scena Pub, guadagnandosi, come accennato, un alone leggendario con il proprio rock energico ispirato fortemente alla Band di Robbie Robertson, Levon Helm, Ricky Danko e compagnia. Quando i BS nel 1975 si sciolsero i tempi erano ormai quasi maturi per la new wave. Lowe e Gomm furono presi sotto contratto dalla neonata Stiff Records di Jake Riviera, ed il primo ebbe anni di successo come musicista e come produttore nella nuova eccitante scena musicale. La maggior parte dei gruppi Pub Rock si rifaceva musicalmente ai primi selvaggi passi nel blues revival di band come i Rolling Stones di Mick Jagger, Brian Jones, Keith Richards e Ian Stewart: gruppi come Dr Feelgood, Ducks Deluxe, Kilburn And The High Roads, Eddie & The Hot Rods.
Il brit blues dei Feelgood, recupera le sonorità selvagge, scatenate e gutturali del blues elettrico delle origini così come era suonato negli afosi locali di Chicago, senza il filtro del produttore discografico che lo registrava per il pubblico di Perry Como. O se preferite il blues elettrico come era suonato dai Rolling Stones al Crawdaddy. Dopo due album asciutti ed essenziali, mono ed in bianco e nero, trovatisi imbarazzati sul materiale da scrivere per il terzo disco, decisero di cavarsela pubblicando un concerto dal vivo del 1975 che evidentemente deve essere stato epocale perché da esso nel tempo sono anche stati estratti un film e innumerevoli brani extra ripescati negli anni successivi. Il disco uscì alla fine del 1976, in giorni ormai maturi per il nuovo rock, ed esordì al primo posto della classifica inglese garantendo alla band un posto imperituro nell’olimpo del rock britannico. Comprendeva tutti gli hit dei dischi precedenti assieme ad una manciata di blues e rock & roll, da Howlin Wolf a Chuck Berry. Colpì il pubblico come un’illuminazione, e di quel pubblico facevo parte anch’io; acquistai Stupidity (questo è il nome del live) a Londra nell’estate del 1977, la stessa dei Pistols, e mi convertii definitivamente alla new wave che da allora è il mio genere preferito. Sembrava ovvio in quei giorni che i Feelgood fossero destinati a diventare nuovi Stones (ma gli stessi originali Jagger & Richards nei giorni della new wave registrarono il loro ultimo buon disco, Some Girls). Invece eravamo già giunti all’epilogo. Partiti per una sofferta tournée americana, Wilko Johnson cominciò per qualche motivo ad estraniarsi dal resto della band; quando tornarono in studio per il primo disco dopo il successo, si accesero gli attriti fra lui, che era l’autore del materiale oltre che il marchio registrato del suono del gruppo, e Lee Brilleux, che era il front man ed il leader indiscusso per gli altri componenti della band. Alla fine delle registrazioni, tese e piuttosto deludenti, Wilko gettò dalla finestra il futuro di tutti e quattro abbandonando il gruppo. Forse era finita l’ispirazione ed i Feelgood avevano già semplicemente suonato tutta la meravigliosa musica di cui erano capaci; a differenza degli Stones non riuscirono ad inventarsi una seconda fase. Per Wilko fu un suicidio artistico: mise assieme senza successo un nuovo gruppo, i Solid Senders, poi divenne session man con i Blockheads di Ian Dury ed infine intraprese una carriera solista sul viale del tramonto. Gli altri tre lo rimpiazzarono con un nuovo chitarrista, trovato prima in Gypie Mayo, poi in Johnny Guitar, ma la disperazione di Lee è ben racchiusa nella sua frase: “io so cantare, ma non sono capace di scrivere le mie canzoni!”. Registrarono un disco prodotto da Nick Lowe, piazzarono nelle parti alte della classifica uno scialbo 45 giri Milk & Alchool, ma un po’ alla volta furono riassorbiti dall’anonimato. Bassista e batterista alla fine lasciarono, mentre il destino di Lee sarebbe stato crudele ma tale da scrivere il suo nome nella leggenda; morì a 41 anni di linfoma mentre ancora era considerato il padrino della scena pub, unico sopravvissuto di una band che ancora usava esibirsi all’Hope & Anchor. Anzi, la band sopravvisse persino a Lee ed ancora oggi ogni anno si celebra uno show in sua memoria a cui prendono parte molti dei musicisti che hanno attraversato la storia dei Dr Feelgood.
Per molti versi affine a Jupp fu il chitarrista Dave Edmunds, un altro gallese del ’44. Allo stesso modo di Jupp, Edmunds fu influenzato dai rocker americani dei primi anni sessanta, quelli di American Graffiti: da Duane Eddy agli Everly Brothers, da Johnny Cash ai Ventures. Edmunds non aveva il talento di songwriter di Jupp, ma fu maggiormente apprezzato dalle classifiche. Nel 1968 arrivò al quinto posto dei 45 giri inglesi (con la sua band, i Love Sculpture) con uno strumentale per chitarra ispirato ad un brano di musica classica, Sabre Dance. Subito dopo fece il primo posto con una cover di I Hear You Knocking. Un LP del 1972 dal titolo Rockpile accese la fantasia di Nick Lowe dei Brinsley Schwarz, che con l’arrivo della new wave mise assieme proprio con Edmunds un gruppo che battezzò con il nome di Rockpile. Però Edmunds aveva firmato un contratto con la Swan Song dei Led Zeppelin, mentre Lowe era diventato il padrino del nuovo rock inglese, in-house producer della Stiff Records, e poi di Radar ed F-Beat, e per il mercato americano aveva firmato niente meno che con la Columbia Records. Come risultato la band poteva vivere solo nel live show, mentre le incisioni erano ripartite fra gli album solisti a nome dell’uno e dell’altro. Nick Lowe ebbe un successo internazionale con I Love The Sound Of Breakin’ Glass dall’album Jesus Of Cool (il Gesù dei fighi, 1978, ribattezzato nei puritani USA Pure Pop For Now People, puro pop per gente moderna). Nel 1979 realizzò Labour Of Lust, lavoro di libidine, il più perfetto dei dischi dei Rockpile, una lucida ricapitolazione di dove avrebbe dovuto dirigersi il beat degli anni sessanta se non avesse preso la strada della psichedelia della Summer Of Love. Di Dave Edmunds tre dischi furono registrati con i Rockpile, Get It – Trax On Wax – Repeat When Necessary (1977-78-79) che gli procurarono qualche hit fra i 45 giri, come Girl’s Talk di Elvis Costello. Quando infine nel 1980 la band fu libera di registrare a proprio nome, l’album Seconds Of Pleasure dimostrò che il piacere di suonare assieme era ormai svanito, e il gruppo si sciolse. Lowe ed Edmunds resteranno amici collaborando ancora occasionalmente negli anni a venire.
Graham Parker era un ex benzinaio che indossava maglie a girocollo, occhiali scuri imitazione di Ray-Ban e cantava il Rithm & Blues. Il suo primo disco fu Howlin’ Wind nel 1976, che comprende Between You And Me, una magnifica ballata registrata come demo trasmesso ripetutamente dalla radio fino a procurare al cantante un contratto con l’etichetta progressiva Vertigo. L’album conteneva metà del repertorio classico di Parker; l’altra metà si trova su Heat Treatment, un potente disco di R&B e fiati prodotto nello stesso anno da Nick Lowe. In quell’album c’era il marchio della new wave, ma sopratutto c’era il soul di Stax e Motown, c’era l’energia di Van Morrison, c’erano le ballate del pub inglese. Per tutto il resto degli anni settanta la musica di Graham Parker & The Rumour fu una cuccagna, con la “NYC serenade” di Stick To Me, che fu accostato allo Sprinsgteen, di E Street Shuffle con torride ballate romantiche come The Heat In Harlem e Watch The Moon Come Down e danze elettriche come New York Shuffle e I’m Gonna Tear Your Playhouse Down. Poi il doppio live di Parkerilla, che faceva il riassunto di tutto; infine il successo del rock serramanico di Squeezing Out Sparks, che rinunciava ai fiati a favore di un muro di chitarre elettriche. Nel frattempo anche i Rumour trovavano il tempo di realizzare piccoli gioielli tutti inglesi, forse troppo raffinati per il grande pubblico: Max, Frogs Sprouts Clogs and Krauts e Purity Of Essence (una citazione da Stanley Kubrick). Raggiunto l’obiettivo del successo, il carattere difficile di G Parker contribuì a provocare la separazione con i Rumour, che si spostarono negli USA per accompagnare Garland Jeffreys, grandissimo ma pigro rocker di Brooklin, per un album live (Rock n Roll Adult – un titolo che è un omaggio a Lou Reed), dopo di che si separarono. Senza il supporto dei Rumour, Parker ebbe uno sbandamento con qualche disco minore, anche se fini che ottenne le migliori vendite della sua vita con l’album peggiore, Steady Nerves del 1985 per la Elektra, in virtù di un singolo, Wake Up (Next To You), un lentone che si avvaleva del grande assolo di sax di quel Louis Cortelezzi dei Mink DeVille. Parker conobbe il secondo picco artistico con una deliziosa serie di album a partire dal 1988, The Mona Lisa’s Sister (di nuovo con il vecchio compagno il chitarrista Brinsley Schwarz), Human Soul, energico r&r a la Quadrophenia, Struck By Lighning doppio LP a la Blonde On Blonde.
Il pezzo dedicato a Gene Vincent (rock & roller morto di cirrosi epatica) che parte lento ed esplode in un rock & roll sfrenato, e poi il rock obliquo di What A Waste, il disco funk che non si può non ballare di Hit Me With Your Rhitm Stick e Reason To Be Cheerful pt 3. A Ian Dury piaceva incidere e stampare questo materiale di getto, senza metterlo sugli album (come si faceva nei ruggenti anni sessanta), creando un alone di leggenda attorno ad ogni pezzo. Il secondo album, Do It Yourself, lanciato in pompa magna dalla Stiff con una dozzina di copertine diverse (carte da parati prese da un catalogo) sfiora il capolavoro, con il suo melting pot di funky, jazz, disco, reggae e free rock, con pezzi come Inbetweenies. Eppure fu durante la registrazione di quell’album che cominciarono ad emergere i fantasmi di Dury, o forse sarebbe più appropriato dire i suoi demoni. Dal carattere brutto e collerico, Dury non riusciva a gestire bene il successo, assumendo posizioni sgradevoli per chi lo circondava. Chez Jankel, che era l’autore principale della musica, se ne andò e ritornò nella band a ripetizione, per l’incapacità di reggere a lungo il cantante. Nel terzo album non è presente, sostituito da Wilko Johnson, e nonostante i molti spunti di classe, le cattive vibrazioni generate dal cantante durante le registrazioni riescono a rendere debole il lavoro. Per il quarto disco Jankel torna ma se ne vanno i Blockheads, costringendo i due ad avvalersi della ritmica nera dello straordinario duo di Sly & Dunbar. Ciò nonostante il disco stenta a funzionare, tranne che per il folle brano di Spasticus Autisticus (che Dury dedica a sé stesso). Da questo momento la carriera di Dury si farà rarefatta, nonostante il tentativo di realizzare un musical, ed un ottimo live con i Blockheads. Blockheads che avevano giurato di non suonare più con Dury ma che invece torneranno per un buon e tragico motivo: Dury ha un tumore e vuole registrare ancora un album con la sua band. Sarà Mr Love Pants (1998), un disco a livello dei suoi tempi migliori, ma anche il canto del cigno: Ian Dury suonerà l’ultimo concerto con i Blockheads il 6 febbraio del nuovo millennio, e morirà di li ad un mese il 27 marzo. Su di lui saranno realizzati un musical ed un film, ed in patria dalla critica è stimato poeta maledetto.
A me quei giorni e quella scena mancano, e non mi dispiacerebbe se i Rumour facessero un disco di reunion come fece la Band ai tempi di Jericho.
Gangor di Italo Spinelli ( dvd )
Upin e Ujan si recano a Purulia, nel Bengala occidentale, per un reportage sulle condizioni di vita dei gruppi tribali. Tra le foto che Upin pubblica, in un articolo di denuncia sulle ingiustizie sociali della regione, quella che ritrae il seno nudo di Gangor scatena la violenta ritorsione delle autorità di polizia locale.
L’amore e la conoscenza che Spinelli nutre per il cinema asiatico, e indiano in particolare, emerge prepotentemente tra le righe di Gangor; le atmosfere della vita agiata indiana come della realtà delle bidonville rivivono in tutta la loro credibilità, servendosi di immagini che non indugiano sulla violenza ma nemmeno si ritraggono di fronte a visioni disturbanti. Un film di denuncia che non è costretto a soffocare la narrazione pur di lasciare spazio all’impegno politico e veicolare il suo messaggio, incentrato nella fattispecie sulla condizione della donna e più in generale sulla pesante discriminazione ai danni dei cosiddetti “tribali”, membri di etnie antiche rassegnati a una vita di indigenza.
Fotografare la realtà può significare catturare immagini suggestive o sviscerare sensazioni ancestrali impossibili da descrivere (o rintracciare) ricorrendo alla parola: dipende da come e dove si colloca l’obiettivo. Quella che Upin coglie osservando il seno di Gangor, fascinosa icona di fertilità e florida femminilità, è la chiave per avvicinarsi in maniera profonda a un’umanità esclusa dalle mappe, dimenticata quando non perseguitata per il solo fatto di esistere.
A complicare la situazione subentra il sottotesto politico – mantenuto da Spinelli sullo sfondo, come tessuto connettivo del disagio sociale – dovuto alla forte presenza dei naxaliti, ossia i maoisti indiani, all’interno dei nuclei di “tribali”, violentemente osteggiati da una polizia dedita all’abuso di potere come neanche la LAPD raccontata da James Ellroy. Gangor racconta di come la migliore delle intenzioni possa generare il peggiore dei risultati e di come la stampa, per John Ford manipolatrice e generatrice della Verità, oggi si sia ridotta a strumento ambiguo, buono per lo sfruttamento o la delazione del singolo più che per un reale miglioramento della condizione umana.
Emanuele Sacchi (www.mymovies.it)
settembre 6, 2011 at 10:15 am alphavillepc2 Lascia un commento
L’estate di Martino di Massimo Natale ( dvd )
Nella drammatica estate del 1980, teatro di tragici eventi quali la strage di Ustica e l’attentato di Bologna, Martino, quattordicenne schivo e introverso, trascorre le vacanze con la comitiva del fratello maggiore. Un giorno, passeggiando lungo la spiaggia, i giovani notano tre soldati americani impegnati a fare surf nel tratto di costa controllato dalla Nato. Martino rimane meravigliato dalla loro destrezza e, penetrando di soppiatto nella zona militare, si imbatte nel capitano Jeff Clark. Inizia così la storia di un’amicizia insolita, che cresce di pari passo alle lezioni di surf e che si fa motore di un amore adolescenziale tanto insperato quanto desiderato.
Massimo Natale, al suo debutto come regista cinematografico, confeziona un film poco convenzionale e ricco di spunti interessanti. La storia è ambientata sulle coste della Puglia, dove il mare – nelle sue molteplici sfumature – fa da scenario a una serie di vicende che si intrecciano, si influenzano reciprocamente e si sovrappongono da una parte ai fatti di cronaca (il film è dedicato alle 85 vittime dell’esplosione di Bologna del 2 agosto 1980) e dall’altra alla storia di “Dragut”, principe che ha sfidato il mare per amore e ha salvato il mondo dal dolore delle morti violente.
Quella di Dragut era la favola preferita dalla mamma di Martino. Dragut, invece, diventa nel film lo stesso Martino, capace di affrontare le onde del mare per lasciare la sua impronta su un destino avverso e inspiegabile. Il surf, di fatto, fa da sfondo al percorso di emancipazione del giovane, ogni giorno più cosciente delle proprie reali possibilità. “Per riuscire a stare in piedi sulla tavola – dice Clark durante la prima improvvisata lezione – servono pazienza e disciplina. Come per tutte le cose difficili”. Ed è proprio grazie a queste due virtù, ma anche alla passione e alla determinazione, che Martino riesce non solo ad attirarsi le simpatie del capitano ma anche a conquistare Silvia, la ragazza di suo fratello.
Ai grandi temi dell’amore e dell’amicizia se ne aggiungono poi altri due, non meno importanti e per certi versi incatenati tra loro: quello politico (con un’Italia che fa i conti con gli anni di piombo e con gli echi della guerra fredda) e quello del rapporto tra genitori e figli. Il padre di Martino è infatti un operaio comunista, severo, violento, e convinto che la strage di Ustica sia stata provocata dagli americani. Jeff Clark, invece, non vede suo figlio da diverso tempo, e cioè da quando ha lasciato l’esercito senza fornire alcuna motivazione. Sia Martino che Clark preferiscono non parlare dei problemi personali, ma grazie alla loro nuova amicizia riescono a trovare – ciascuno a suo modo – la forza e il coraggio per provare a voltare pagina.
L’estate di Martino è un prodotto su cui si può percepire uno studio attento e approfondito. Ben costruito, ben montato ma soprattutto ben diretto, il film si articola con il giusto ritmo tra passato e presente, tra favola e realtà, guardando però sempre ad un tragico futuro che lo spettatore conosce già. Spiccano alcune trovate registiche sicuramente interessanti, come nella scena dello sbarco del gommone americano (in cui si ha la sensazione di essere parte dell’equipaggio) o delle prime lezioni di surf impartite dal capitano Clark (in cui sembra quasi di essere presenti fisicamente). Interessante anche il lavoro su attori molto giovani e pressoché esordienti: ad una Matilde Maggio comunque credibile si affianca un Luigi Ciardo sorprendente, talmente calato nella parte da tener testa ad un interprete affermato come Treat Williams. Da sottolineare anche la cura riservata a un altro grande protagonista della storia, il mare, presenza costante (e simbolo forte) attorno al quale – e nel quale – si svolgono gli avvenimenti. Il finale, con sorpresa, completa degnamente un quadro già di per sé sufficientemente positivo.
Luca Volpe (www.mymovies.it)
settembre 5, 2011 at 6:06 PM alphavillepc2 Lascia un commento
La fine è il mio inizio di Jo Baier ( dvd )
Mancano poche settimane alla fine. Tiziano Terzani, da tempo malato di cancro, sta per morire. Mentre raccoglie i suoi ultimi pensieri, tra salutari risate e umane preoccupazioni, decide di richiamare il figlio Folco da New York per trascorrere con lui, nella sua casa di campagna, un momento di confronto confessionale. Quei dialoghi, registrati con devoto impegno dal figlio, diventeranno il libro “La fine è il mio inizio”.
Il film di Jo Baier è un atto di coraggio che sfida le dure leggi dell’intrattenimento perché è un’opera fatta di parole, silenzi e sguardi, pochi movimenti agitati e tante inquadrature delicate. Chiusi, e allo stesso tempo liberi, nella casa di campagna del giornalista, i protagonisti sono in burrasca, attendono con controllata pacatezza un dolore annunciato. Ma il desiderio di ribellarsi ad un programma stabilito di sofferenza viene incanalato in un senso più ampio di pace. La confessione arguta di un uomo che ripercorre, episodio dopo episodio (l’incontro con la moglie Angela, gli aneddoti sui due figli), paese dopo paese (Cina, Vietnam, Singapore), tutte le più grandi esperienze della sua vita, investe il figlio della responsabilità di registrare tutto perché, mentre il corpo se ne va, l’animo continui a vivere nella memoria di chi rimane.
Lo spettatore deve predisporsi all’ascolto, deve calibrare i propri istinti emotivi, lasciarsi andare alla commozione ma allo stesso tempo rimanere vigile di fronte al pensiero finale di un uomo che potrebbe sembrare esoterico (il contatto stretto con la natura, la predisposizione a riflessioni sull’universo, e l’abbigliamento da ‘santone’), ma che invece evita qualsiasi tentazione new age. Anche quando racconta del volo di una coccinella sull’Himalaya o delle cavallette che ricordano primavera, il suo personale panteismo naturalistico non rappresenta mai un punto d’arrivo ma un passaggio che chiama altro sapere. E così, anche alla fine della vita corporea, non smette di curiosare tra le profondità dell’anima, tentando – e infine trovando – un modo umanamente altissimo di andarsene.
Ridere per poter morire in pace, seppur con rabbia. E morire ridendo. Abbandonarsi a ciò che accomuna tutti gli uomini con accettazione, dimostrando che si può volgere lo sguardo al passato, ripensare a ciò che si è fatto e riconoscersi: fare la vita che si desidera è fattibile, dice il padre Tiziano al figlio Folco. Bruno Ganz e Elio Germano dimostrano di aver compreso la profondità del suo pensiero e, con dedizione e rispetto, rappresentano, il primo l’ingombrante ombra di un padre straordinario ma difficile da raggiungere, il secondo l’intelligente volontà di essere diverso dal genitore, pur ammirandone lo spirito da esploratore. Un’eredità aggraziata che, in tempi di distrazione cronica e rumore generalizzato, dimostra di essere un gioiello preziosissimo.
Nicoletta Dose (www.mymovies.it)
settembre 3, 2011 at 10:49 am alphavillepc2 Lascia un commento
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