Archive for ottobre, 2015

SUBURRA di “Stefano Sollima” recensione di Stefania De Zorzi

suburra

Roma era già stata protagonista splendida e decadente per Sorrentino
in “La Grande Bellezza”; Stefano Sollima in “Suburra”, ispirato
all’omonimo romanzo di Bonini e De Cataldo, scava nel lato più oscuro
della capitale, mostrando le connessioni fra politici corrotti,
criminalità organizzata e alto clero. Le vicende del film sono
scandite dal susseguirsi dei giorni di una settimana cruciale nel
novembre 2011, in un momento di crisi politica e religiosa, con il
governo prossimo a cadere in Parlamento, e le dimissioni di Papa
Ratzinger ormai imminenti. Sotto una pioggia incessante e tutt’altro
che purificatrice, si intrecciano le storie di Filippo
Malgradi/Pierfrancesco Favino, politico amante di serate trasgressive
animate da droga e giovani prostitute, e del potente Samurai/Claudio
Amendola, esponente di spicco della criminalità romana. Dell’affresco
corale di una Suburra (rimando ad un quartiere malfamato della Roma
imperiale) sontuosa quanto degradata, fanno parte anche
Sebastiano/Elio Germano, coinvolto suo malgrado dal padre nel girone
infernale del clan degli Zingari, capeggiati dal ferocissimo
Manfredi/Adamo Dionisi, e Numero 8/Alessandro Borghi, piccolo boss
della malavita di Ostia. Sollima ricorda, in modo positivo, la lezione
dei grandi del cinema noir e gangster americano: dagli interni
lussuosi e kitsch della casa di Manfredi (reminiscenza di Scarface),
ad una Roma notturna fotografata come se fosse Washington, col
cupolone come il Campidoglio e la luce gialla dei lampioni e dei
palazzi eleganti che fa da sfondo alle nefandezze dei capi criminali.
Analogamente a “Quei Bravi Ragazzi”, non c’è spazio per le forze
dell’ordine, né per la gente “normale”: nell’obiettivo ci sono solo
gli orchi come Manfredi, interpretato con una spaventosa presenza
fisica da Dionisi, o ancora il Samurai, cui Amendola conferisce
un’aura di raffinata crudeltà. I buoni, quelli che apparentemente
vengono irretiti nelle trame della malavita in quanto vittime delle
circostanze, in realtà hanno debolezze imperdonabili (l’ossessione per
la villa di Sebastiano, il sesso sfrenato e l’attaccamento alla
poltrona di Malgradi), che li condannano moralmente agli occhi dello
spettatore. In una scena dall’inquietante valenza simbolica,
Malgradi/Favino, nudo e stordito dalla droga, urina dal terrazzo
dell’hotel sulla città sotto di lui, elargendo una benedizione
blasfema e sprezzante. La Chiesa, così importante nella storia della
città, è una presenza ambigua: i capi malavitosi ostentano crocefissi
appesi al collo e grandi immagini sacre in vistose cornici dorate alle
pareti, mentre il Papa, visto solo di spalle, è prossimo a dimettersi,
ed un alto esponente della Curia gestisce i cospicui fondi del
Samurai. Il cast è strepitoso, compresi gli attori non protagonisti:
spicca Viola/Greta Scarano, nei panni della tossica pazza, violenta e
innamorata alla “Natural Born Killers”. Film potente nello stile e
nella lucida riflessione morale, che disturba per la ferocia esibita e
per il realismo sconsolante, in cui lo spettatore riconosce personaggi
e situazioni della Roma e dell’Italia di oggi.

ottobre 26, 2015 at 6:57 PM Lascia un commento

Festa del cinema di Roma ” Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti recensito in esclusiva per Alphaville da Alessandro Bertoncini.

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lo-chiamavano-jeeg-robot-primo-poster-del-film

Approda alla festa del cinema l’opera prima di Gabriele Mainetti, regista di diversi cortometraggi che ora si cimenta in un lungo davvero insolito per il cinema italiano: se proclamavamo Salvatores come il veicolante di una ventata di aria fresca per la nostra industria, dopo aver visto il film di Mainetti possiamo dire che il celebre regista di Napoli ha fallito. Se il suo supereroe nasceva dall’esigenza di trovare una figura paterna, qui i superpoteri nascono nelle periferie, dai disagi sociali. Il nostro Enzo ( interpretato da un eccezionale Santamaria ) ruba i bancomat e non uccide nessuno sradicando il potere criminale che incombeva sulla città, ma il tutto mostrato senza una eccessiva prepotenza dell’epica. Con un cast in stato di grazia ed una solidissima regia, il film centrifuga ironia, epica, azione dramma, applicando allo schema visivo degli eccellenti effetti digitali ed un mix del suono che non si sentiva da anni qui in Italia. Numerose anche le parodie, dal piano sequenza de ” il segreti dei suoi occhi ” ad Enzo che osserva la città dal colosseo come Batman dal tetto grattacielo, per passare alla fotografia che gioca con l’uso di diverse camere e lenti come nel migliore stile hollywoodiano moderno.

ottobre 26, 2015 at 12:31 PM 1 commento

“Sopravvissuto – The martian di Ridley Scott recensione -Stefania De Zorzi-

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La prerogativa di un artista è plasmare il proprio mondo a suo
piacimento, decidendo per svolte positive ed un lieto fine, laddove in
teoria nella realtà non ce ne sarebbe alcuna possibilità. E’ il caso
di “Sopravvissuto – The Martian”, in cui Ridley Scott progetta con
cura una fiaba fantascientifica aspra nelle ambientazioni e dolce per
sviluppo e relazioni fra i personaggi, molto diversa dagli universi
tetri e splendidi di “Blade Runner” e “Alien”. L’astronauta Mark
Watney/Matt Damon, dato erroneamente per morto dai compagni durante
una tempesta su Marte, viene abbandonato a se stesso al campo-base:
grazie alla propria forza interiore, alle competenze di biologo e al
suo acume , dovrà riuscire a sopravvivere per un lungo periodo di
tempo su un pianeta totalmente deserto e inadatto alla vita, in attesa
dell’arrivo incerto della difficile missione di soccorso. A metà fra
Robinson Crusoe e Mac Gyver, l’astronauta Watney è un uomo fuori dal
comune, immerso nella più classica delle avventure fantascientifiche,
la colonizzazione di un pianeta ostile: pur tuttavia rimane un uomo,
più che un eroe, che pianta patate su Marte, e cerca di non
scoraggiarsi di fronte allo spettro della fame e della solitudine. Per
una volta, nessuno ha colpe nello svolgersi della trama: non
l’equipaggio, che compierà un grosso sacrificio pur di salvare il
compagno, né la NASA, che mette a disposizione ingenti risorse per il
bene di un unico uomo. Perfino gli Stati imparano a cooperare, e
l’Agenzia spaziale cinese interviene in modo solidale senza secondi
fini. Insomma una fiaba, resa però credibile dall’accuratezza con cui
si sviluppa la trama, e dalle soluzioni “tecniche” escogitate per far
fronte a problemi apparentemente insormontabili (solo la sequenza di
eventi del soccorso finale rimane forse un po’ ingenua).
L’instancabile lavoro di squadra degli scienziati da terra ricorda
“Apollo 13”, mentre la bella scena del salvataggio nello spazio, con
le funi di collegamento come nastri nell’oscurità del cosmo, rimanda
elegantemente a “Gravity”, con ammiccamenti ironici perfino ad
“Iron-Man”. Si partecipa intensamente al dramma del protagonista senza
scadere mai nel patetico, mentre il ritmo rimane per quasi tutta la
durata del film abbastanza avvincente. Forse si poteva abbreviare
qualche passaggio, nell’ambito di una storia non facile incentrata per
la maggior parte del tempo su un unico personaggio, ma si tratta di
peccati veniali. Oltre a Matt Damon, che offre una grande
interpretazione, tutto il cast è affiatato e in parte: dal comandante
Melissa Lewis/Jessica Chastain, a Beth Johanssen/Kate Mara, fino a
Vincent Kapoor/Chiwetel Ejoofor. Ridley Scott dirige un bel canto
dell’innocenza, in cui gli esseri umani tirano fuori il meglio di sé,
non ci sono alieni malvagi e minacciosi a recitare il ruolo del nemico
“esterno”, ed è solo la vita, con la sua imprevedibilità, a lanciare
sfide.

ottobre 17, 2015 at 10:18 am Lascia un commento

FOUR KINGS di -Theresa von Eltz- in diretta dal festival di Roma le recensioni di Alessando Bertoncini per Alphaville.

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Quattro ragazzi dovranno trascorrere il natale in una clinica psichiatrica per adolescenti: questo è il pitch dell’opera prima di Theresa Von Eltz, che dirige sapientemente un dramma che fa da specchio ai personaggi stessi: una narrazione apatica come l’esistenza di ogni persona che popola quel posto, un fotografia meravigliosa che grazie alla sua fredda colorazione rende il film ancora piu tetro e reale. Non è di certo un capolavoro ma, lontano dagli schemi convenzionali e ad una fredda initimità narrativa-visiva, merita una visione.

ottobre 17, 2015 at 10:04 am 1 commento

SICARIO di Denis Villeneuve RECENSIONE Stafania De Zorzi

sicario

Il cinema americano degli anni Settanta ha creato un’icona tuttora
molto popolare, quella del vendicatore tutto d’un pezzo che decide,
spesso per tragici eventi familiari, di operare al di fuori delle
pastoie della legge, sgominando con successo intere bande criminali.
Denis Villeneuve riprende questo mito dei nostri tempi in “Sicario”,
mostrandone però il lato più oscuro, così come aveva già fatto
nell’ottimo “Prisoners”. Kate Macer/Emily Blunt è un’agente
dell’F.B.I. che, grazie alle doti di buon combattente e all’esperienza
sul campo, viene coinvolta in una complessa operazione fra Stati Uniti
e Messico, volta a decapitare i vertici di un cartello della droga,
responsabili di crimini efferrati. Al suo fianco guidano l’azione un
ambiguo agente, Matt Graver/Josh Brolin, e l’inquietante “consulente”
Alejandro/Benicio Del Toro; ben presto Kate si troverà a dubitare
della legittimità delle azioni dei colleghi, in un’escalation di
violenza, tradimenti e massacri. Il film inizia con una bella
sequenza, che trasforma in modo repentino il raid di agenti speciali
in una squallida casa di periferia, in una scena dell’orrore. In
drammatica progressione lo spettatore scopre che i demoni non sono
solo i trafficanti di droga contro cui Kate lotta con fervore, ma
anche i “colleghi” al suo fianco, fautori di torture, spietati omicidi
e di ambigue alleanze. Del Toro porta alle estreme conseguenze la
vendetta al di fuori della legge degli eroi del passato interpretati
da Clint Eastwood o da Charles Bronson: il male assoluto subito dal
suo personaggio, e solo brevemente accennato nel racconto
agghiacciante della morte dei suoi cari per mano dei
narco-trafficanti, lo contamina fin nel profondo, rendendolo un
mostro, del tutto indistinguibile dagli altri mostri a cui dà la
caccia. Villeneuve gira scene che lasciano senza fiato per la loro
bellezza, come quella dell’incursione nel tunnel, con le figure degli
agenti che si stagliano nere contro un cielo tinto di porpora e di
azzurro; subito dopo i colori poetici del crepuscolo lasciano spazio
al bianco e nero artificiale dei visori notturni, in una battaglia
mortale sfumata di grigio, dai contorni indefiniti. Sono belli i primi
piani sul viso intenso e onesto di Emily Blunt, che non esce dalle
regole e soprattutto dai confini della sua morale, al contrario dei
lupi disumanizzati con cui è costretta a collaborare; mentre i
cadaveri mutilati appesi come carne da macello o le foto sbiadite
delle ragazze scomparse rimangono in piccolo sullo sfondo, eppure per
questo ancora più visibili. Un ottimo film, dal ritmo teso e
avvincente, con un finale spiazzante per la sua durezza, dove il fine
non giustifica i mezzi, e la morale dei buoni non salva gli innocenti
dal male.

ottobre 7, 2015 at 9:40 am Lascia un commento


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