Archive for agosto, 2017
Baby Driver – Il Genio Della Fuga – Recensione di Marco Zanini
Anno: 2017
Titolo originale: Baby Driver
Paese di produzione: UK, USA
Genere: azione, commedia
Regia: Edgar Wright
Produttore: Tim Bevan, Eric Fellner, Nira Park
Cast: Ansel Elgort, Kevin Spacey, Lily James, Jon Bernthal, Eiza Gonzàlez, Jon Hamm, Jamie Foxx, Sky Ferreira, Flea
Baby è un pilota straordinario costretto a prestare il suo talento al crimine a causa di un debito che lo lega ad un potente boss chiamato Doc. Il lavoro per lui è semplice ma comunque rischioso: fare da autista ai rapinatori. Ogni colpo una squadra diversa, ma con la costante del rapporto che lo lega a Doc, che aleggia su di lui come una condanna, e che gli passa puntualmente mazzette ad ogni rapina. Una volta pareggiato il debito il giovane pilota può finalmente permettersi una vita normale e la conoscenza di Debora, la ragazza del fast food che frequenta di solito, sembra un nuovo inizio. Ma quando ormai le preoccupazioni sembrano appartenere al passato ecco rispuntare Doc. Il lavoro non è ancora finito.
Per chi avesse già visto L’Alba Dei Morti Dementi e Hot Fuzz, sa bene quanto sia fantastico il cinema di Edgar Wright. Opere di questo genere (tra le quali Hot Fuzz è un piccolo capolavoro) hanno consegnato al mondo un regista che ha fatto del genere d’evasione un motivo di rilettura e costante personalizzazione. Baby Driver – Il Genio Della Fuga non è da meno. Partendo dai classici (più vecchi e recenti) e facendoli propri con la comicità che ormai lo ha perfettamente delineato e soprattutto la straripante immaginazione, il regista britannico conferma di essere uno dei migliori in circolazione. Per quanto l’idea e la descrizione visiva di un ragazzo orfano che custodisce gelosamente una audiocassetta della madre possa ricordare I Guardiani Della Galassia (dando un’idea di quanto l’opera di James Gunn sia già diventata influente), e l’incipit sembri la versione ironica di Drive di Refn, Baby Driver – Il Genio Della Fuga è un film unico nel suo genere. Wright non è uno che si accontenta ma vuole a tutti i costi dire la sua, sia in termini di sceneggiatura che di regia e ci riesce benissimo. A colpire è soprattutto il protagonista, interpretato da un ottimo Ansel Elgort, laconico e con un ronzio dovuto ad un acufene che per essere equilibrata necessita un apporto musicale continuo. Un bisogno che ha fatto innamorare Baby della musica, contenuta nei suoi svariati i – pod, trasformandola nella colonna sonora perfetta e sincronizzata della sua vita, comprese le rapine. Non a caso il titolo Il Genio Della Fuga ha una doppia valenza: scappare dalle rapine guidando ma anche fuggire dai problemi con la musica. Un personaggio inedito, maniacale, agile e affascinante. Alle sue spalle l’ombra gigante di Kevin Spacey/ Doc, l’usato sicuro del film di Wright, perfetto nel mettere inflessione glaciale e satira nel personaggio.
Chiaramente i ladri compiono le rapine, ma in questo film sono comprimari, la vera star del mondo criminale per Wright è Baby l’autista. Persino i colleghi rimangono impauriti dai suoi silenzi e dal suo atteggiamento tranquillo e distaccato. Non sono solo queste brillanti idee a rendere Baby Driver – Il Genio Della Fuga un bel film. Nonostante l’impressione sia quella di spensieratezza e poca serietà, violenza e adrenalina non vengono risparmiati; la sequenza di rapina in partenza è spettacolare così come tutti gli inseguimenti sia in macchina che a piedi, in cui ne spicca uno accompagnato dalla leggendaria ed inarrestabile Hocus Pocus dei Focus. Il resto è un susseguirsi di scelte musicali sempre valide ed azzeccate che arrivano a scandire genialmente le sparatorie. Nel finale, che come sempre per Wright deve essere infinito e fluviale, forse Baby Driver – Il Genio Della Fuga perde un po’ risultando eccessivo e troppo ricco di pathos, quasi da gioventù bruciata. Tuttavia ci troviamo di fronte all’ennesimo spettacolare cinema d’evasione genuino e scintillante di Edgar Wright.
Zanini Marco
agosto 30, 2017 at 11:01 am alphavillepc2 Lascia un commento
Feria d’agosto, anno secondo. Prima ri…visione: “Blade runner- The final cut” di Ridley Scott (1982-2007). Recensione di Annalisa Bendelli
La pullulante, brulicante, fumigante, piovosa, babelica, capillarmente illuminata ma scura, cupa, Los Angeles del 2019 in “Blade runner” è una delle più affascinanti e inquietanti visioni distopiche di futuro (un futuro molto prossimo in verità) che il grande cinema ci abbia mai regalato.
Nelle immagini d’apertura ti viene incontro e sorprende come una sorta di eruzione magmatica in solidificazione, una concrezione ribollente.
Le luci al neon nella notte e i fumi delle ciminiere sono lapilli e vapori lavici, le costruzioni stalagmiti, sedimenti rocciosi più che prodotti della tecnologia umana.
Una sorta di resa al caos che è in gran parte, visivamente, ritorno all’informe e al buio dei primordi…
Torbido rimpasto di natura e cultura in un clima di decadenza, anarchia e fine di civiltà, del mondo.
Penetrando, sorvolando la città, magari a bordo degli “spinner”, le navicelle volanti del presidio e pattugliamento poliziesco, ci si imbatte in architetture che per eccesso di stratificazione (sedimentazione?), elaborazione e complicazione, direi superfetazione, tecnologica hanno stravolto in forme barocche i volumi e le geometrie lineari della ‘classica’ città del futuro.
Sotto traccia, la memoria di una langhiana “Metropolis”, levigata, abbacinante e chiara, geometrica, olimpica e monumentale, trasfigurata, quasi irriconoscibile, nella metamorfosi che la riconduce a qualità e natura contorte, caotiche, intricate, oscure.
Un approdo nel segno del disorientamento, in questo mio secondo vagabondare estivante nel cinema già visto.
Quell’estremo avamposto dell’occidente che è la californiana “città degli angeli” compenetrato e fuso con megalopoli asiatiche o extraeuropee – mettiamo Tokyo, Hong Kong, Calcutta e magari qualche scorcio e anfratto di Casablanca – coloniale e futurista, climatizzato e monsonico, presidiato, svettante, razionale e insieme tentacolare, caotico, cunicolare.
Paradossalmente ma non troppo, ritrovo l’est andando a ovest, insieme a quell’umanità multietnica in cui prevale il soma asiatico, fradicia, batterica e disastrata, per tabe o imperfezione incapace o impossibilitata a raggiungere le colonie dell’oltremondo reclamizzato dai battage mediatici, a imbarcarsi sulle tradotte interstellari riservate agli eletti, l’umanità forte e selezionata con il suo equipaggio di umanoidi, atletici, smaglianti, iperfunzionali nella loro intensa, bruciante esistenza a (breve) termine secondo progettazione.
Sulla terra, anzi ‘a terra’, a parte il ceto altolocato (letteralmente, sulle torri e luoghi elevati del potere) dei dirigenti e agenti del governo e della produzione, una subumanità, bizzarramente multiforme e deforme, orda, congerie barbarica urbanizzata, magma umano in un transito- andirivieni adirezionale, caotico, entropico (riemergono per confronto e contrasto le processioni meccanicamente orientate, alienanti e coatte, degli operai della città sotterranea, motore-congegno di “Metropolis”).
Il traffico metropolitano sotto la pioggia battente nella città-giungla in costante penombra è una sorta di terreno colturale, gli umani ridotti in condizione microbica, immersi in un elemento liquame primordiale dove possono magari scoccare scintille e bagliori, rilanciando la scommessa evolutiva, per lo più destinati a spegnersi e perdersi nell’indistinto, nel nulla…
Disorientamento non solo spaziale, ancor più temporale: il tempo è uno dei temi dominanti nella pellicola.
Tempo che scorre e avanza inesorabile scandito dalle pale e ventole sui tetti delle case, a rievocare gli ingranaggi degli orologi negli incubi di certa poesia barocca.
Tempo che gocciola e ringorga in quella terribile metafora visiva della pioggia insistente e pervasiva che, oltre a prefigurare con lungimiranza i funesti cambiamenti climatici incombenti sull’oggi, rinnova in atmosfera irredimibilmente plumbea il biblico diluvio.
Tempo che inverte il senso di marcia e ritorna: l’ambientazione retro-futurista privilegia, per arredi e abbigliamento, un sofisticato clima cinematografico anni Quaranta con stilizzazioni da coevo fumetto glam di fantascienza… (il Moebius di “Métal hurlant”)
E poi la compresenza di architetture e stili, la stratificazione, il precipitato, di ere e atmosfere, epoche e strutture sociali, barocco, gotico, arcaico, medievale, imperiale, europeo e coloniale.
Il palazzo piramide assiro-azteco (che assomiglia per geniale ibridazione figurativa a un macroscopico congegno elettronico), gli albergoni dal décor liberty, gli interni sofisticati, le vie come suq maghrebini, l’appartamento dello stralunato smagato bounty killer in missione, un po’ garçonnière, un po’ tana di lusso firmata dalla protoarchistar, un po’ ricettacolo, un po’ laboratorio-wunderkammer… e ancora l’arredo sontuoso da tardo impero nella suite padronale del creatore-demiurgo Tyrell e l’oggettistica rétro o paleondustriale, i poligrafi e le lampade ministeriali, i fari e le pale dei ventilatori.
Diasincronia e sincretismo stilistico sembrano voler riprendere in mano il catalogo dell’umanità: recuperare, rimettere in gioco, rilanciare, opzioni, progettazioni, visioni e ri…visioni (eh eh) di abitabilità e civiltà…
Quante fotografie, quanti ricordi, sogni, innestati o meno nei cervelli, quanti occhi, umani, animali, sintetici, prima di tutto la cinepresa, l’occhio del regista, a percepire, registrare, selezionare, archiviare…
Ritornano prepotentemente alla mente le boiseries e i cristalli nell’arca spaziale di “Solaris” o la suite regency dell’approdo ultimo di “2001: Odissea nello spazio”.
A rappresentare un bisogno non necessariamente lineare e progressivo, piuttosto ondivago e meticciato, di scegliere, selezionare tra le attestazioni molteplici di civiltà le migliori espressioni o quelle più suggestive, care alla memoria, nostalgicamente, struggentemente, abbarbicate al nostro esistere e sentire e desiderare.
Con… fusione e disorientamento spazio-temporale cui corrisponde il disorientamento etico ed esistenziale… sempre più un chiedersi, con sempre meno risposte chiare e univoche, dove andare e stare… dove e come vivere… e in definitiva chi essere e voler o dover essere…al limite se continuare ad essere e vivere.
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