Gli spiriti dell’isola regia Martin McDonagh recensione di Stefania de Zorzi

febbraio 20, 2023 at 1:51 PM 1 commento

Martin McDonagh è regista di film attraversati da un forte senso dell’assurdo, declinato in forme di volta in volta più ironiche (In Bruges, 7 Psicopatici) o drammatiche (Tre manifesti a Ebbing, Missouri). 

Gli spiriti dell’isola non fa eccezione: è il primo aprile 1923, e sull’isola immaginaria di Inisherin, al largo della coste occidentali dell’Irlanda, l’anziano musicista Colm/Brendan Gleeson dichiara improvvisamente la sua insofferenza nei confronti di Pádraic/Colin Farrell, che lo annoia con le sue conversazioni da uomo semplice. Quest’ultimo non si rassegna alle ripetute dichiarazioni di inimicizia dell’ex compare di bevute e di chiacchierate al pub, e cerca in ogni modo di recuperare il rapporto, suscitando una serie di reazioni a catena violente e imprevedibili. Ne sono testimoni la sorella di Padráic, Siobhán/Kerry Condon, e il “ matto” del paese Dominic/Barry Keoghan, ragazzo abusato dal padre poliziotto Peadar/Gary Lydon.

L’inizio è semplice e folgorante, e condensa in pochi minuti le migliori caratteristiche del film: i dialoghi ritmati con la circolarità e il lirismo di una ballata, la fotografia in esterni che illumina di luce livida il verde dei prati e il grigio blu del mare in contrasto con la penombra degli interni, e infine la presenza rassicurante degli animali, che accompagnano e vegliano per tutto il tempo i protagonisti.

In lontananza si odono gli echi della guerra civile d’Irlanda: l’insensata violenza delle auto-mutilazioni minacciate da Colm se Pádraic non desisterà dal disturbarlo può facilmente essere presa a simbolo della follia bellica.

Tuttavia rimane qualcosa di volutamente irrisolto nella fiaba dark di McDonagh, e non potrebbe essere altrimenti: per non correre il rischio di un simbolismo didascalico, e forse anche per accentuare l’assurdo dell’esistenza umana, in cui non a tutto si può attribuire un significato.

In un dialogo indimenticabile l’arte si contrappone alla gentilezza, e il fatto che la prima perduri nel tempo e nella memoria al contrario della seconda, non è di conforto; così come non lo è la negligenza della religione verso le anime degli animali che ci sono stati cari, mentre è considerata peccato l’offesa ad un’autorità gretta e brutale.

Le scene alla finestra rivestono un’importanza particolare: sia come tentativo di entrare nel mondo dell’altro (tutte le volte che Pádraic cerca di attirare l’attenzione di Colm), sia come curiosità benevola da parte di un’asinella, di una mucca o di un cavallo, che si affacciano dal davanzale come dall’interno di un quadro, e talvolta entrano a recare consolazione ad un essere umano afflitto o turbato.

L’interpretazione di tutti gli attori è magnifica, e la pioggia di candidature agli Oscar è ben fondata; merita una menzione speciale anche la colonna sonora di Carter Burwell, articolata fra il folk vivace di violini e tamburi al pub, le note stranianti a passeggio per l’isola, e le arie d’opera che fuoriescono dal grammofono di Colm.

Il bel titolo originale “The Banshees of Inisherin” sottolinea l’aspetto mitologico della tradizione irlandese, incarnato nella figura sinistra di Mrs McCormick/Sheila Flitton, profetessa di sventure e cattivi pensieri, che Pádraic cerca invano di evitare durante le sue lunghe camminate.

E’ un film bello ma arduo, sia per l’andamento lento e a spirale di dialoghi e situazioni, che per il raccapriccio suscitato da certe scene in contrasto con l’atmosfera altrimenti sospesa e mitica, in cui una vena sottile di humour nero evita un eccessivo appesantimento del dramma. Senz’altro da vedere, evitando la rigidità della logica lineare, e lasciando decantare con calma le suggestioni e i molteplici spunti di riflessione.

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