Archive for gennaio, 2024

One Life – regia di  James Hawes – recensione di Stefania De Zorzi

“One Life” segna l’esordio cinematografico (col botto) del regista televisivo James Hawes, che adatta per il grande schermo la biografia “If it’s not impossible…The life of Sir Nicholas Winton”.

Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria e l’invasione della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista, il giovane agente di borsa Nicholas Winton/Johnny Flynn si reca a Praga per motivi umanitari: con l’aiuto della madre Babette/Helena Bonham Carter e di un comitato per i rifugiati riesce a far espatriare diverse centinaia di bambini ebrei, ai quali procura documenti, visti e famiglie affidatarie in Gran Bretagna. Anziano e tormentato dai ricordi, negli anni Ottanta Winton/Anthony Hopkins porta l’album che custodisce fotografie dei bambini e articoli di giornale dell’epoca alla curatrice Betty Maxwell/Marthe Keller, affinché rimanga traccia di quei drammatici eventi: per una fortunata serie di circostanze la storia arriva in televisione, e per la prima volta viene resa nota al grande pubblico.

James Hawes restituisce il ritratto di un uomo “comune” quanto a origini e professione, che intraprende insieme a famigliari, amici e collaboratori altrettanto “normali”, una missione all’apparenza impossibile sotto molti aspetti: in primis quella di superare gli ostacoli posti dalla burocrazia inglese, ottusa e noncurante.

Winton si destreggia abilmente tra montagne di scartoffie (viene in mente il simpatico Bob Parr che ne “Gli incredibili” aiuta una vecchietta ad avere ragione delle trappole contrattuali dell’assicurazione), supera la diffidenza e guadagna la fiducia di coloro che vorrebbe salvare, coinvolge la stampa facendo leva sui migliori sentimenti della pubblica opinione e di tutti quelli che incontra sul suo cammino, mettendo in moto in breve tempo un’organizzazione straordinariamente efficiente a dispetto degli scarsi mezzi a disposizione.

Caso raro di questi tempi, il film mette in mostra le qualità di uomini e donne “normali”, privi di super-poteri o di abilità spionistiche: sia il giovane Winton che quello anziano sono caratterizzati da una forte empatia e sensibilità,  non hanno timore di piangere e di entusiasmarsi, mostrando la loro fragilità di fronte alla sofferenza e al dolore. L’interpretazione sia di Flynn che di Hopkins è misurata eppure intensa, una magnifica prova d’attore in tandem: siamo lontani anni luce dalla freddezza di tanto cinema d’azione, che rende stereotipati fin quasi all’astrazione personaggi e situazioni.

I bambini in scena escono dalla bidimensionalità delle piccole foto sull’album e dalle statistiche della storia, e diventano ognuno un campione di umanità in erba, fulcri di tragedia e di speranza: Hawes dirige con grazia, supportato da una sceneggiatura precisa che accumula dettagli sulle personalità e sulle relazioni familiari dei piccoli, e man mano che l’azione progredisce crea nello spettatore la sensazione di conoscerli uno ad uno, così come succede a Winton, in un meccanismo a orologeria che coinvolge e angoscia, perché si sa bene che non tutti potranno essere salvati.

Diverse scene si imprimono in maniera indelebile nella memoria: quella dell’incontro tra il rabbino e Winton, fra lui  e la famiglia Diamantova, la mancata partenza dell’ultimo treno, i dialoghi ironici fra il vecchio Winton e la moglie, solo per citarne alcune.

Sembra che tutto sia emozione nel film, ma questa è guidata dal gioco sapiente di Hawes, che alterna il passato remoto del 1938 a quello più recente degli anni Ottanta, in una contrapposizione fra gioventù ardente e senile malinconia, fra la tragedia della guerra e la rassicurante cialtroneria dello show televisivo.

Meritano menzione anche le belle scenografie e i costumi d’epoca, e una fotografia attenta, che usa luci e colori freddi per gli anni Trenta, mentre avvolge in toni caldi e tinte pastello gli Ottanta.

E’ un film bello e terribile, che racconta della salvezza di alcune centinaia di innocenti a fronte della strage di migliaia, in balìa di quella che Winton definisce la “lotteria” del caso. Se ne esce un po’ travolti, con le immagini dei bambini che perseguitano lo spettatore così come angosciarono in vita il protagonista: parzialmente consolatorio il finale, che concretizza il motto “Chi salva una vita, salva tutta l’umanità”, e le immagini di repertorio del vero Winton, che buca lo schermo con uno sguardo acuto e carico di umanità.

gennaio 15, 2024 at 1:50 PM 1 commento

IL RAGAZZO E L’AIRONE – di Hayao Miyazaki -recensione di Stefania De Zorzi

Hayao Miyazaki dirige e scrive la sceneggiatura del suo ultimo (in ordine cronologico, e forse in assoluto, ma non è mai detto) lungometraggio d’animazione: “Il ragazzo e l’airone”.

Il dodicenne Mahito subisce la tragica perdita della madre in un incendio a Tokyo durante la Seconda Guerra Mondiale; l’anno successivo il padre si trasferisce col figlio in campagna, presso la sorella della moglie scomparsa, Natsuko, con cui ha nel frattempo concepito un figlio. Oppresso dal dolore per la madre scomparsa, Mahito fatica ad accettare la nuova situazione famigliare, e trascorre il tempo esplorando i dintorni campestri della sua nuova dimora: finché la zia Natsuko scompare nel bosco, e nel corso della sua ricerca un airone cenerino fuori dal comune lo conduce ad una torre da cui il prozio è svanito misteriosamente molti anni prima. Nella torre Mahito varca insieme all’airone il portale per un altro mondo irto di insidie e ricco di meraviglie, che potrebbe celare la chiave per ritrovare la madre morta.

Lo spettatore ritrova volti familiari dai film precedenti di Miyazaki, simili eppure diversi: i parrocchetti giganti non sono caratterizzati dalla benevolenza di Totoro, ma da una stolida ferocia; viceversa le vecchie signore bitorzolute e rugose anziché streghe sono figure protettrici; il prozio a sua volta rammenta nella capigliatura e nei tratti il mago Howl invecchiato.

La natura, cui la cultura giapponese dedica particolare attenzione, è protagonista, fra cupi richiami mitologici, ironia fantasiosa e comico realismo: gli uccelli del mondo reale rilasciano escrementi in quantità al loro passaggio, mentre pellicani e parrocchetti dell’altro mondo divorano e uccidono, seppure per necessità, oppure hanno uno spirito ambiguo come l’airone, che lungi dall’essere un simbolo di grazia ed eleganza è il travestimento di un essere deforme e dispettoso.

Visivamente il film è un’opera d’arte: le fiamme dell’incendio dell’ospedale “bruciano” letteralmente sullo schermo con un’intensità drammatica e un dinamismo mai visti in un lungometraggio d’animazione, mentre sui fondali della campagna fiori e orti sono dipinti con pennellate impressioniste. Dalla torre, con gli arazzi iperrealisti in cui sembra di poter contare ogni filo, Mahito scivola in un altro mondo animato per buona parte in modo bi-dimensionale con un effetto distopico e straniante, a tratti affrescato in tinte di pura luce (l’ampio spazio delimitato da colonne che permette l’accesso al mondo del prozio). Lo spettatore si può divertire a trovare riferimenti illustri: da Magritte (il macigno sospeso), all’onda di Hokusai, o ancora ai metafisici (i solidi geometrici), in un caleidoscopio unico e originale di stili funzionali alla narrazione.

Miyazaki rievoca in questo anime, soprattutto nella parte dedicata alla visita dell’altro mondo, David Lynch: per le atmosfere oniriche più che magiche, il simbolismo denso e misterioso, l’andamento spiazzante della trama.

Malgrado i pregi, non è un film privo di difetti: la rappresentazione di una dimensione a metà fra il sogno e l’incubo, in cui sono condensati e stratificati significati più o meno nascosti, compromette talvolta il ritmo che risulta piuttosto lento, con scene giustapposte anziché consequenziali, e la comprensione dello spettatore.

Il titolo originale “E voi come vivrete?”, citazione dal libro (reale) che il protagonista scopre per caso come lascito della madre, è d’aiuto nel trovare una chiave di lettura: nella contrapposizione e riconciliazione fra vita e arte, passato, presente e futuro, equilibrio e conflitto, purezza e male, accettazione della morte e gioia di vivere.

Nel complesso naturalmente il film è da vedere: con la pazienza di chi non decodifica tutti i simboli e i risvolti della trama e probabilmente non ci riuscirà neppure a una visione successiva, ma sa lasciarsi avvolgere dal mistero, aiutato in questo dallo spirito giocoso e irriverente di Miyazaki che, con diabolica grandezza, permea personaggi e situazioni.

gennaio 8, 2024 at 1:02 PM Lascia un commento


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