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The Shape of Water -Guillermo del Toro- recensione di Stefania De Zorzi.

FORMA 1
Guillermo del Toro, come Tim Burton, adora le creature fantastiche e i mostri, o presunti tali: non fa eccezione il suo ultimo film, “La forma dell’acqua”, in cui il mondo è visto dalla parte del mostro della Laguna Nera.
Negli anni della Guerra Fredda,  dopo che i russi hanno mandato in orbita la cagnetta Laika, gli americani catturano e imprigionano un ibrido uomo-pesce (Doug Jones) in un laboratorio segreto a Baltimora, sperando di ricavarne conoscenze scientifiche e forse un vantaggio bellico. Dell’essere misterioso si innamora Elisa Esposito/Sally Hawkins, donna delle pulizie muta e di mezz’età, che mette in atto un piano ardito per salvarlo dalle torture del colonnello Richard Strickland/Michael Shannon; in suo aiuto vengono un ambiguo scienziato, il Dottor Hoffstetler/Michael Stuhlbarg,  l’amica Zelda/Octavia Spencer e il coinquilino gay Giles/Richard Jenkins.
Del Toro usa i primi anni Sessanta come ambientazione per un proseguimento ideale de “Il mostro della Laguna Nera” (1954), e come specchio di una società (passata?) in cui donne, omosessuali e afro-americani devono subire i pregiudizi di una morale bianca e perbenista. La prospettiva storica è folgorata dalla modernità di alcune notazioni spiazzanti e ironiche, quali l’auto-erotismo della protagonista nella vasca da bagno, ritmata dal timer di cottura delle uova, o l’atteggiamento tutt’altro che succube di Zelda nei confronti del marito. Americani e russi sono accomunati dalla stessa crudele cecità nei confronti del diverso che, come tale, deve essere vivisezionato a fini militari, o altrimenti distrutto: i veri mostri hanno sembianze umane che, come nel caso del colonnello Strickland, si necrotizzano in modo inquietante man mano che la trama si sviluppa.

Del Toro, regista e in parte sceneggiatore, omaggia  il simpatico mostro gommoso degli anni Cinquanta accompagnandolo ad un’ardente bruttina stagionata, ma anche l’Abe Sapien di “Hellboy” (interpretati non a caso dallo stesso attore), e mette in scena una  fiaba nera affascinante, seppure non priva di qualche scontatezza. Visivamente il film è splendido, giocato fra il laboratorio con tubature intrecciate in uno stile fra Giger e l’Art Nouveau, il cinema rivestito di sontuosi velluti rossi, lo spazio fatiscente ma caldo della dimora di Elisa e di Giles, contrapposto al rigore borghese della villetta di Rickland e alle lucenti cromature della sua Cadillac azzurro-verde.
Assolutamente da vedere, oltre che per i motivi citati sopra, anche per il magnifico cast di attori e per l’intenso sguardo poetico, inusuale nel genere, che abbraccia le vicende narrate.

febbraio 21, 2018 at 1:57 PM Lascia un commento


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