Archive for giugno, 2010

Martha Tilston – Lucy & the wolves ( cd )

In dieci anni di carriera Martha Tilston è riuscita a conservare un candore alieno ai nuovi protagonisti del folk revival in Inghilterra. Lontana dalle ortodossia tanto cara ai puristi, e poco incline a contaminazioni socio-politiche, la sua musica è una delicata e sognante fusione di folk acustico e bozzetti sonori che evocano paesaggi immaginari.

La sua voce resta una delle più affascinanti e suggestive degli ultimi anni: su pochi elementi sonori raffinati e sapienti Martha Tilston ricama emozioni con la stessa abilità di un artigiano, elabora melodie intense che sembrano sgorgare da un ruscello d’acqua pura, con sofisticati accenni di seduzione sonora gestiti con alcune collaborazioni eccellenti (Maggie Boyle, flauto, Will Rumfitt, trombone, Chris Doney, banjo, e Steve James, piano), che consacrano “Lucy &The Wolves” come il suo miglior album.
 
Molti brani si elevano per originalità e creatività: “Lucy”, con i suoi intrecci armonici vocali e strumentali, sembra uscire dalle pagine di “Blue” di Joni Mitchell,Old Tom Cat” contiene più poesia di qualsiasi emulo di Leonard Cohen, “The Cape” si avvolge in suoni neoclassici con risultati originali e sognanti, il piano fluisce come linfa in una quercia giovane.
Un unico traditional nel repertorio, ovvero “Searching For Lambs”, che Martha affida alle sole corde vocali mentre un’orchestra di corvi cesella l’incanto naturale, che resta immacolato per tutto l’album fino alle magiche note conclusive di “Wave Machine”, dove violino e chitarra accennano un duello armonico di rara bellezza.

Altro momento intenso è “350 Bells”, dove profumi psych-folk avvolgono la voce suadente di Martha. “Rockpools”, dal delicato finger-picking, “Who Turns”, sospesa su poche note di basso e legna scoppiettante, “Seabirds”, dalle sonorità limpide e raffinate, archiviano altri trionfi di armonia e classe vocale per un album intenso e suggestivo.
Lucy & The Wolves” è l’ennesima espressione di un talento che reclama attenzione, un prezioso album da consegnare ai posteri con passione.

Gianfranco Marmoro (www.ondarock.it)

giugno 30, 2010 at 6:03 PM Lascia un commento

Revanche ( Ti ucciderò ) di Gotz Spielmann ( dvd )

In città o si diventa arroganti o farabutti: con queste parole viene descritto Alex a pochi minuti dall’inizio il quale, occorre dirlo, di certo stando a Vienna non è diventato arrogante. Uscito di galera qualche tempo prima dell’inizio del racconto, ora fa l’autista per il padrone di un bordello e ha commesso il terribile errore di innamorarsi, ricambiato, della prostituta più richiesta. Insieme meditano la fuga per la quale gli occorrono però parecchi soldi, lei infatti è seriamente indebitata. C’è solo un modo per Alex di procurarsi quella cifra e in fretta: una rapina ben fatta. Purtroppo un piccolo ingranaggio del meccanismo non va per il verso giusto influendo sulla fuga dei due amanti dalla città e dando alla storia una seconda parte radicalmente diversa. Nel passaggio da città a campagna (dove il dolore si rimugina tagliando la legna e ha la forma della gigantesca catasta di ciocchi che ne risulta), il silenzio della seconda si contrappone al caos della prima e il noir diventa una dramma a due: la lentissima caccia che l’autoproclamato giustiziere dà al colpevole, suo ignaro vicino di cascina.
Prostitute, malviventi e poliziotti in cerca di redenzione. Non occorre essere americani per girare degli ottimi noir e non occorre copiarli per riuscire a farlo in Europa. Revanche è al tempo stesso un poliziesco classico, in cui si racconta di malviventi e prostitute in fuga da una vita in cui è impossibile amare grazie ad un ultimo crimine, e un film di vendetta che inizia là dove il poliziesco solitamente termina. Il regista Götz Spielmann (poco noto da noi ma pieno di premi sui suoi scaffali) non si diverte per nulla a mettere nelle mani di un uomo violento e già condannato la possibilità di farsi giustizia da solo senza che nessuno lo scopra, anzi in ogni momento è attento a mettere in evidenza le contraddizioni insite in un simile atto viscerale con il timore di chi crede che in ogni uomo (compreso se stesso) ci sia un potenziale assassino.
Non si fanno sconti a nessuno, i protagonisti hanno tutti uno o più peccati da confessare e sulla necessità della loro espiazione si fonda il senso stesso del racconto. L’unica etica che fa capolino (ognuno vedrà poi se concordare con essa o meno) è quella dei molti simboli cristiani che incombono sui peccati cittadini da scontare in campagna e delle bibliche opposizioni logiche (peccato/pena, colpevole/giustiziere, città/campagna, nascita/morte e via dicendo).
Revanche è un film che indaga il senso della vendetta e la responsabilità delle nostre azioni utilizzando personaggi e situazioni estreme, un’opera in grado di sorprendere in ogni momento contando su una quantità impressionante di colpi di scena, ognuno dei quali ha ragione d’esistere per come mescola nuovamente le carte smontando le certezze dello spettatore al quale, al pari del protagonista, non resta che chiedersi quale sia il fine ultimo delle nostre azioni e fino a dove arrivi la nostra responsabilità su di esse.

Gabriele Niola (www.mymovies.it)

giugno 29, 2010 at 5:11 PM Lascia un commento

L’uomo che verrà di Giorgio Diritti ( dvd )

Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale vede i propri territori occupati dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi in una brigata partigiana. Per una delle più giovani abitanti del luogo, la piccola Martina, tutte quelle continue fughe dai bombardamenti e quegli scontri a fuoco sulle vallate hanno poca importanza. Da quando ha visto morire il fratello neonato fra le sue braccia, Martina ha smesso di parlare e vive unicamente nell’attesa che arrivi un nuovo fratellino. Il concepimento avviene in una mattina di dicembre del 1943, esattamente nove mesi prima che le SS diano inizio al rastrellamento di tutti gli abitanti della zona.
L’eccidio di Marzabotto è uno di quegli episodi che premono sulla grandezza della Storia per stringerla dentro alla dimensione del dolore del singolo. Per raccontare quella strage degli ultimi giorni del nazifascismo nella quale vennero uccisi circa 770 paesani radunati nelle case, nei cimiteri e sui sagrati delle chiese, Giorgio Diritti si affida a un proposito simile a quello del suo precedente Il vento fa il suo giro : partire dalla lingua del dialetto per raccontare una comunità e dal linguaggio del cinema per costruire un messaggio sull’identità culturale. Rispetto al lungometraggio d’esordio, L’uomo che verrà si confronta direttamente con la memoria storica e tende a ricostruire la storia del massacro in modo strategico ma senza risultare affettato, puntando sul lato emozionale ma mai ricattatorio della messa in scena. Non più il punto di vista di uno straniero che tenta di confondersi e integrarsi con quello di una comunità ostile, ma quello di un piccolo membro di una collettività, Martina, che si congiunge e si scambia con quello di tutte le vittime della strage. Per rendere questa idea, Diritti riscopre la fluidità delle immagini e, lontano dal facile realismo delle immagini sgranate girate con macchina a mano, costruisce scene a volte statiche e a volte in movimento, inquadrature fisse e piani sequenza, ma sempre modulati in funzione dei movimenti e delle emozioni della comunità rurale. La funzione patemica si concede un solo, brevissimo ralenti durante la scena dell’esecuzione, e delega il suo lavoro a delle semi-soggettive a lunga e media distanza dall’evento. La “visione con” di queste inquadrature diviene “con-divisione” di punti di vista e di emozioni sulla tragedia: dietro a quelle nuche che affiorano dai margini delle inquadrature fino ad occludere la visibilità degli scontri, c’è il progetto di una personificazione dello sguardo nella strage, l’idea che dietro ad ognuna di quelle morti ingiustificabili ci sia sempre un corpo e un punto di vista. Sguardi nella tragedia che si fanno sguardi sulla tragedia, per il modo in cui questo visibile parziale richiede il nostro coinvolgimento ottico ed emotivo. La distanza che fin dall’inizio pone l’antico dialetto bolognese si annulla così grazie alle scelte di messe in scena di Diritti, che elabora un modo di vedere la guerra dove non c’è bisogno di suddivisioni manichee o di una crudeltà pittoresca per comprendere da che parte stare. Per capire che i “partigiani” di oggi sono quelli che sanno collocare il proprio sguardo sul passato in prospettiva di un futuro pacifico di condivisione che ci riguarda tutti.

Edoardo Becattini (www.mymovies.it)

giugno 28, 2010 at 6:12 PM Lascia un commento

Suzanne Vega – Close-up Vol.1 Love songs ( cd )

C’era una volta Suzanne Vega. Scomparsa, come tanti altri, dalle radio, dalle classifiche, dai titoli dei giornali, dal music business dei grandi (?) numeri. Una ex folk star in regime di semiclandestinità che negli ultimi anni aveva decisamente rallentanto il passo, trattata da certi discografici come un giornale del giorno prima, lei pure iscritta al crescente club degli artisti “fai da te” abbandonati al loro destino – a volte è una benedizione, non una condanna – da un’industria discografica con il portafogli vuoto (il suo ultimo giro di valzer risale a tre anni fa, ai tempi del discreto ma non eccelso “Beauty & crime” pubblicato dalla Blue Note/EMI). Ma mica stiamo parlando di una meteora, di una “two hit wonder” pateticamente aggrappata ai successi planetari di “Luka” e di “Tom’s diner”. Come tanti “classic artists” con le spalle abbastanza larghe per non soccombere, anche Suzanne si sta dando da fare per reinventarsi, per riconnettersi alla fanbase, per riappropriarsi nei limiti del possibile del suo passato. Ed ecco l’idea (in gergo lo chiamano “riposizionamento” di mercato), scaturita sull’esempio di quanto hanno fatto colleghi come Carly SimonJackson Browne , con la sua collana “solo acoustic”: reincidere a tappe forzate il vecchio repertorio per ricrearsi un catalogo finalmente proprio e autofinanziarsi a costi ridotti, attraverso le vendite di cd e di download, le prossime produzioni. “Close-up vol 1, Love songs” è il primo atto di quest’operazione di recupero/restauro, da qui a fine 2012 seguiranno altri tre album organizzati intorno a temi diversi (“gente, luoghi e cose”, “stati esistenziali”, canzoni che parlando di famiglia). Questo primo capitolo, uscito in coincidenza con San Valentino negli Stati Uniti ma solo ora in Italia, raccoglie invece 12 canzoni d’amore (ma anche “di attrazione, corteggiamento e scontro”) selezionate lungo tutto l’arco della carriera, dal primo omonimo Lp del 1985 all’ultimo datato 2007. Niente “Luka”, niente “Tom’s diner”; d’altronde non si tratta di un greatest hits, e il songbook della Vega è abbastanza robusto e consistente da non risentirne. “Close-up”, registrato in intimità e praticamente in presa diretta, è ciò che promette: un primo piano, uno sguardo a distanza molto ravvicinata che ha il suono, il passo e l’atmosfera di un “live in studio”, di un intimo concertino in un minuscolo club o nel salotto di casa, quasi a tu per tu con lo spettatore: chitarra acustica e voce (con il microfono così vicino da coglierene anche le più piccole increspature), qua e là il basso di Michael Visceglia (al proscenio in “Stockings”) e la chitarra elettrica del puntuale e incisivo Gerry Leonard, qualche impercettibile sovraincisione. Suzanne ha rivisto le partiture originali modificando qualche sequenza di accordi, cambiando qualche tonalità, ritoccando lievemente qualche testo, secondo un procedimento di “work in progress” assolutamenteb legittimo e anzi naturale, trattandosi in fondo di folk songs o di “techno-folk”, come lei preferisce definirlo per rimarcare la sua familiarità con GarageBand, le nuove tecnologie e la musica fatta in casa col computer. “Small blue thing”, subito all’inizio, ci ricorda di cosa sia capace: un delicato, introspettivo e poetico autoritratto in un interno, che in punta di penna sfoggia una squisita sensibilità armonico-melodica e grande destrezza nel giocare con le parole, una cura particolare per il dettaglio e uno stile impressionistico che privilegia l’immagine alla pura narrazione: è la scuola di Dylan e di Cohen, di Joni Mitchell e di Laura Nyro, di quel Greenwich Village che Suzanne bazzicava da diligente e brillante scolaretta ai tempi degli esordi al Cornelia Street Cafè. Da quel primo, bellissimo album assolutamente controcorrente in epoca di Madonna, New Romantics e techno pop arriva anche “Marlene on the wall”, il primo successo, qui rivisto al ralenti ma molto simile all’originale (la smorfia ironica della Dietrich che da un poster affisso al muro della cameretta osserva le disavventure amorose della protagonista è un magistrale artificio poetico), mentre “Gypsy”, dal best seller “Solitude standing”, replica il modello folk club & fingerpicking con risultati quasi altrettanto apprezzabili. Il gioco si fa più difficile e interessante nei pezzi recuperati da “99° F” e “Nine objects of desire”, i dischi anni Novanta in cui le immacolate miniature di Suzanne venivano manipolate, sporcate e gentilmente brutalizzate dall’ex marito Mitchell Froom, all’epoca uno dei produttori più “in” degli States, a forza di beats elettronici, effetti e rumorismi in stile “industrial music”. Qui le si riascolta quasi in formato demo, pre trattamento di studio: “(If you were) In my movie” conserva il suo swing trasformandosi quasi in un talking blues, “Caramel” rinuncia all’arredamento lounge mantenendo il ritmo da bossa nova Jobimiana e un sottile erotismo (quando vuole Suzanne sa essere molto sensuale, cfr. la succitata “Stockings”: “Sai dove finisce l’amicizia e inizia la passione?/Tra il bordo delle sue calze e la sua pelle”), mentre “Headshots”, scritta a quattro mani con Froom, resta astratta e cerebrale. “Love songs” finisce per essere anche un diario intimo e autobiografico: “Song in red and gray” (dal quasi omonimo, amaro “divorce album” dello stesso nome) rievoca il fallimento del primo matrimonio, “Bound” testimonia il rinnovato slancio amoroso nei confronti del secondo marito, il poeta e avvocato dei diritti civili Paul Mills. Bellissima “Harbor song”, che già nel titolo evoca il dondolio ipnotico di certe ballate “marine” di David Crosby , l’onirica “Some journey” ricorda la Mitchell del periodo aureo e l’arpeggio di “(I’ll never be your) Maggie May” profuma di tradizione e di orgoglio femminile. Tutto qui, tutto sottovoce. “Love songs” è solo un pretesto per far circolare aria nuova in casa, togliere polvere dagli scaffali, riverniciare qualche suppellettile consunta dall’uso (certi arrangiamenti e sonorità un po’ datate). Ma se, come dice la Vega nelle scarne note di copertina, si tratta di un regalo, lo accettiamo volentieri. Anche perché è “fatto a mano”, in ossequio un modo nobile e classico di scrivere canzoni di cui purtroppo sembrano essersi perse nuovamente le tracce.

Alfredo Marziano (www.rockol.it)

giugno 26, 2010 at 9:56 am 1 commento

Il concerto di Radu Mihaileanu ( dvd )

Andreï Filipov è un direttore d’orchestra deposto dalla politica di Brežnev e derubato della musica e della bacchetta. Rifiutatosi di licenziare la sua orchestra, composta principalmente da musicisti ebrei, è costretto da trent’anni a spolverare e a lucidare la scrivania del nuovo e ottuso direttore del Bolshoi. Un fax indirizzato alla direzione del teatro è destinato a cambiare il corso della sua esistenza. Il Théâtre du Châtelet ha invitato l’orchestra del Bolshoi a suonare a Parigi. Impossessatosi illecitamente dell’invito concepisce il suo riscatto di artista, riunendo i componenti della sua vecchia orchestra e conducendoli sul palcoscenico francese sotto mentite spoglie. Scordati e ammaccati dal tempo e dalla rinuncia coatta alla musica, i musicisti accoglieranno la chiamata agli strumenti, stringendosi intorno al loro direttore e al primo violino. La loro vita e il loro concerto riprenderà da dove il regime li aveva interrotti, accordando finalmente presente e passato.
Con Train de vie Radu Mihaileanu “addolcì” la Shoa, circondandola di un’aura pienamente fantastica e organizzando una finta “autodeportazione” per evitare quella reale dei nazisti. Il suo treno carico di ebrei fintamente deportati ed ebrei fintamente nazisti riusciva a varcare come in una favola il confine con la Russia. Ed è esattamente nella terra che prometteva uguaglianza, salvezza e integrazione, che “ritroviamo” gli ebrei di Mihaileanu, musicisti usurpati del palcoscenico e della musica a causa della loro ebraicità.
È un film importante Il concerto perché racconta una storia ancora oggi sconosciuta, la condizione esistenziale degli ebrei che vissero per quarant’anni nel totalitarismo. Andreï Filipov e i suoi orchestrali sono idealmente prossimi agli artisti che durante il regime di Brežnev si macchiarono dell’onta infamante del dissenso e furono cacciati dal paese o dai luoghi dove esercitavano la loro arte con l’accusa di aver commesso atti antisovietici. Costretti a vivere (e a morire) nei campi di lavoro della dittatura brezneviana o additati di fronte al mondo e al loro Paese come parassiti sociali, i protagonisti del film riposero gli strumenti per trent’anni e ripiegarono su esistenze dimesse e mestieri svariati: facchini, commessi, uomini delle pulizie, conducenti di autoambulanza, doppiatori di hard movie. Il regista rumeno li sorprende in quella vita (ri)arrangiata e offre loro l’occasione del riscatto artistico e della reintegrazione nel loro ruolo.
Come Gorbaciov, Mihaileanu restituisce alla Russia un patrimonio umano e intellettuale, concretato nel Concerto per Violino e Orchestra di Tchaikovsky, diretto da Filipov nell’epilogo e metafora evidente della relazione tra il singolo e la collettività. Positivo del negativo Wilhelm Furtwängler, celebre direttore della Filarmonica di Berlino convocato di fronte al Comitato Americano per la Denazificazione, l’Andreï Filipov di Alexeï Guskov è un fool, un’anima gentile dotata come lo Shlomo di Train de vie di un talento per l’arte della narrazione e della finzione, che conferma la predilezione del regista per l’impostura a fin di bene e contro la grandezza del Male.
Ancora una volta è la musica ad accordare gli uomini. In un’amichevole gara musicale tra due etnie perseguitate (ebrei e gitani) o nella forma del Concerto per Violino e Orchestra, due sezioni che formano un’irrinunciabile unità emozionale.

Marzia Gandolfi (www.mymovies.it)

giugno 25, 2010 at 3:11 PM Lascia un commento

Invictus di Clint Eastwood ( dvd e b-ray )

Nelson Mandela è il presidente eletto del Sud Africa. Il suo intento primario è quello di avviare un processo di riconciliazione nazionale. Per far ciò si deve scontrare con forti resistenze sia dalla parte dei bianchi che da quella dei neri. Ma Madiba, come lo chiamano rispettosamente i suoi più stretti collaboratori, non intende demordere. C’è uno sport molto diffuso nel Paese: il rugby e c’è una squadra, gli Springboks, che catalizza l’attenzione di tutti, sia che si interessino di sport sia che non se ne occupino. Perché gli Springboks, squadra formata da tutti bianchi con un solo giocatore nero, sono uno dei simboli dell’apartheid. Mandela decide di puntare proprio su di loro in vista dei Mondiali di rugby che si stanno per giocare in Sudafrica nel 1995. Il suo punto di riferimento per riuscire nell’operazione di riunire la Nazione intorno alla squadra è il suo capitano François Pienaar.
Negli Stati Uniti all’uscita del film c’è chi ha affermato che il nome del protagonista si scriveva Mandela ma si pronunciava Obama. Chi la pensa così evidentemente non conosce nulla di Clint Eastwood. Clint è un repubblicano nel DNA, ha fatto campagna per McCain e attende gli esiti dell’Amministrazione democratica con una fiducia guardinga. Eastwood però è un conservatore illuminato e con il suo cinema ormai da tempo persegue una ricerca nel profondo degli elementi che possono, senza che nessuno perda la propria identità di base, provare a conciliare gli opposti. Lo ha fatto (solo per stare nel breve periodo) con Million dollar baby , con Flags of our fathers Lettere da Iwo Jima e, in modo ancor più esplicito e rivolto al grande pubblico, con Gran Torino .
In Invictus trova in Mandela (e in un totalmente mimetico Morgan Freeman) una sorta di supporto storico alla sua ricerca. Ciò che racconta non è frutto della fantasia di uno sceneggiatore ma trae origine dai fatti narrati nel libro di John Carlin “Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game That Made a Nation”. Eastwood ne trae un film assolutamente classico sia per quanto riguarda lo stile visivo sia per quanto attiene ai due generi consolidati (biografia e cinema e sport) a cui fa riferimento. Si sente in lui e in Freeman la profonda ammirazione per Mandela con la consapevolezza (lo si dice anche a un certo punto facendo riferimento a una gaffe di una sua guardia del corpo a proposito della famiglia) del rischio dell’agiografia. Che viene sfiorato ma poi in definitiva evitato nel momento in cui si mostra come il desiderio di superare il devastante clima dell’apartheid parta dal cuore ma sia filtrato da uno sguardo razionalmente strategico. Mandela non è spinto dal sentimentalismo. I versi di “Invictus” imparati in prigione hanno rafforzato la tempra di un uomo che sa come raggiungere l’obiettivo rischiando in proprio ma sostenendo il rischio con una strategia ben definita. Lui che non sa granché di rugby non solo si tiene a fianco una sorta di trainer ma impara a memoria volti e nomi dei giocatori. Ha la fortuna di trovare in Pienaar un uomo che non dimentica di essere diventato un segno di divisione ma che non teme di mutare atteggiamento. La rudezza sul campo non è disgiunta dall’intuito e il modo in cui Eastwood ci mostra una partita di cui gli annali hanno già fissato l’esito sottolinea questa empatia. Due uomini, due squadre (gli Springboks e il ristretto staff presidenziale) e due ‘popoli’ che compiono un primo, importante passo per iniziare a divenire una Nazione nel pieno e moderno senso del termine. Chi ha la parola ‘buonismo’ sempre a portata di tastiera la sprecherà anche questa volta ricordando magari come in Sudafrica i problemi non siano tuttora completamente risolti. Dimenticando, al contempo, che ci sono film buonisti e buoni film. Invictus appartiene ai secondi.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

giugno 23, 2010 at 4:33 PM Lascia un commento

Tom Petty & The Heartbreakers – Mojo ( cd -2lp )

Il nuovo disco di Tom Petty & The Heartbreakers, il sorprendente Mojo, prende origine dalla prima canzone del disco del 2006 (Highway Companion), un blues rock alla Howlin’ Wolf / ZZ Top dal titolo di Saving Grace, e dal disco del 2008, Mudcrutch, un ritorno alle origine, sia di Petty con la sua prima band, che alle radici dell’ispirazione del suo rock. La crisi creativa è una situazione con cui Tom più volte si è trovato a confrontarsi, sin dai lontani tempi di Southern Accent (1985), quando si racconta che si sia rotto una mano prendendo a pugni il muro per la frustrazione. Il passaggio, negli anni novanta, dall’etichetta MCA alla Warner Bros segnò anche il passaggio da un rock & roll più vivo ad un sound cantautoriale che per quanto talora di ottima fibra ha progressivamente portato (Wildflowers, Echo) il suono dei dischi della band verso una stasi creativa ed un sound più noioso, un cul de sac ben rappresentato da The Last DJ. È da Highway Companion, attraverso l’esperienza dei Mudcrutch ed anche dal recupero dell’eredità della band nel percorso della Live Anthology, che Petty e soci cercano ispirazione nelle pulsioni che all’origine li hanno mossi verso l’amore del rock & roll, e con Mojo centrano in pieno il bersaglio.
I sessantacinque minuti del disco ne fanno per lunghezza un doppio LP di una volta, come Blonde On Blonde, White Album, Layla, Exile On Main Street, London Calling, The River; tradizionalmente la summa creativa dell’anima dell’artista. Di tutti i dischi citati Exile è quello che più simboleggia l’ultimo sforzo degli spezzacuori: come Mojo è un disco torrido che procede a tutto vapore viaggiando con l’essenza / la benzina del rock & roll anche a prescindere dalle singole canzoni ma in indivisibile tutto, come fosse un live show. Mojo è pari ai dischi che più mi hanno divertito nella mia lunga carriera di fruitore del rock & roll. Le canzoni sono fatte di un compatto, robusto tessuto che è cesellato dell’evocativa voce di Tom, dalla sfrenata chitarra solista di Mike Campbell (mai così libero e scatenato) e dal sapiente lavoro di accompagnamento degli altri ragazzi. Un tessuto, una texture, in un cui c’è dentro tutto il rock & roll ma che non si ispira a nessuno in particolare se non al grande lavoro, all’opus magnum, che gli Heartbreakers hanno saputo generare nei trentacinque anni da cui si trovano on the road. Non cito Howlin’ Wolf, né gli Allman o i Dominos perché il rock dei sedici brani è ormai Tom Petty & Heartbreakers al 100%. L’unico nome che potrei fare è quello dei Dire Straits del primo album per l’influenza che spesso hanno sulla chitarra di Campbell.
Chiudo citando a paragone Damn The Torpedoes, Full Moon Fever, The River. Un lavoro di cui non ci dimenticheremo.
★ ★ ★ ★ ★ (capolavoro) Genere: ROCK Reprise, 2010 in breve: un “doppio LP” fatto del tessuto dei capolavori degli anni settanta.

Blue Bottazzi (http://bluebottazzibeat.blogspot.com)

giugno 21, 2010 at 6:19 PM 2 commenti

Damien Jurado – Saint Bartlett ( cd – lp )

Nella lunga carriera di un cantautore, vi è un momento in cui guardarsi alle spalle, raccogliere i propri ricordi per continuare a narrarli in musica e al contempo imprimere nuovi slanci a una scrittura e a interpretazioni riconoscibili e apprezzate nel loro piglio caldo e profondo.

Questo momento, per Damien Jurado, è coinciso prima col recente lavoro in vinile realizzato insieme al fratello Drake a nome Hoquiam e adesso con il suo nono album in studio, realizzato grazie alla supervisione produttiva del compagno d’etichetta Richard Swift e dedicato quasi interamente a luoghi, ricordi e immagini rimaste impresse nella sua memoria, dalla quale adesso riaffiorano per essere cantate in maniera ancora più intensa e ovattata rispetto a quanto avvenuto negli ultimi dischi. 

Se infatti già il precedente “Caught in the trees” liberava parzialmente la poetica del cantautore di Seattle dalle invasive derive alt-country che l’avevano caratterizzata in tempi recenti, il nuovo “Saint Bartlett” fa scolorare ormai del tutto l’immagine di Jurado quale rocker da highway per restituirlo a quella più intima di narratore di racconti e sensazioni. La dimensione di Damien Jurado in questo lavoro torna ad essere estremamente personale, così come scarno e discreto è il contributo della band che l’accompagna e quello di una produzione tanto curata nei suoni quanto parca negli interventi sul tessuto connettivo dei brani. 

Eppure, non bisogna pensare a “Saint Bartlett” come a un disco dimesso e pessimista, nelle tematiche o nei toni. Tutt’altro: è vero che i dodici scorci immortalati dalle canzoni rimandano a una sottile nostalgia di luoghi, persone e visioni disperse nel tempo, ma lo spirito e l’abito sonoro dei brani denotano un romanticismo descrittivo e tutto sommato positivo, incorniciato ora da briose note di piano, ora da fraseggi elettrici e cadenze ritmiche in bilico tra una percussività narcolettica e la repentina vivacità di un handclapping.

Benché non manchino un paio di residui blues elettrici (“Wallingford“, “Kalama“) e saltuarie incursioni nell’essenzialità della formula voce-e-chitarra, in “Saint Bartlett” Jurado sembra volersi distaccare nettamente dai cliché del cantautorato più classico, tornando a prediligere, soprattutto nella seconda metà del lavoro, una formula lieve e ovattata, che nelle atmosfere sospese generate da arrangiamenti d’archi e da tenui iterazioni organiche trova il contesto ideale per narrazioni quasi sottovoce di cartoline innevate (“Falling Snow“) e luoghi segnati dalla promessa di un ritorno (l’ottima “Kansas City“). 

Il riaffiorare dei ricordi rappresenta dunque al contempo una sorta di apertura alla speranza, connotata da un lato da una significativa ricchezza di arrangiamenti e dall’altro dal rifugio in un’intimità niente affatto depressiva. Anzi, sono proprio i toni soffusi che nel complesso ne risultano a dimostrarsi ancora una volta particolarmente congeniali alla poetica e al timbro vocale dell’artista di Seattle, la cui sensibilità di scrittura, qui esplicitata prima nella vitalità della prima parte del lavoro e poi nell’uniformità un po’ troppo insistita della seconda, continua a collocarlo con merito tra i più costanti, ancorché meno celebrati, songwriter statunitensi dell’ultimo decennio.

Raffaello Russo (www.ondarock.it)

giugno 21, 2010 at 4:20 PM Lascia un commento

Brendan Perry – Ark ( cd )

 

 Di certo non avevamo sentito molto parlare di lui negli ultimi anni. Lo avevamo lasciato nel 2005 con la gradita reunion con Lisa Gerrard per un tour in Europa e America. Poi nel 2009 la partecipazione al riuscito Ovations dei Piano Magic, dove prestava la sua voce a due brani. E ora, quasi inaspettatamente, questo Ark, che esce in sordina per la Cooking Vinyl dopo aver debuttato sui banchetti del suo tour europeo. Gli anni sembrano non passare per Brendan Perry: è in grande forma (artistica prima che strettamente tecnica) e questo disco rappresenta un graditissimo ritorno sulle scene. Non che sia una svolta sconvolgente rispetto al tipico Dead Can Dance sound, sia chiaro, ma Ark riesce nell’intento di non essere soltanto un’operazione nostalgica per il passato che fu grazie a delle buone idee in fase di composizione e a qualche interessante spunto che dona varietà al tutto. E se a questo si aggiunge una voce che nonostante i 51 anni sembra essere ancora quella di 20 anni fa, si può facilmente concludere che questo sia un lavoro per cui i fan faranno con ogni probabilità salti di gioia. L’album è interamente scritto, suonato e prodotto dallo stesso Brendan Perry, mediante l’utilizzo di soli sample e sintetizzatori; ed è proprio questa la novità più consistente. Linee melodiche e scrittura dei brani sono quanto di più classico ci si possa aspettare dall’autore, aggiornate a un suono più moderno grazie all’elettronica. Sono proprio queste le caratteristiche di “Babylon” e “Crescent”, che non a caso erano state scritte per la reunion dei Dead Can Dance nel 2005. “The Devil and the Deep Blue Sea”, con il suo incedere trip hop, e “Wintersun” con la sua emotività sono senza dubbio tra le più riuscite del lotto. L’elettronica, d’altra parte, era il mezzo ideale per esprimere gli intenti di Perry, a giudicare dalle sue dichiarazioni di presentazione del disco: “volevo creare un soundscape che riflettesse un mondo sempre più dipendente dalle macchine, le quali svolgono sempre più compiti al posto nostro”. Ark sarà quindi gioia per le orecchie dei fan, non lo si può negare, ma è anche interessante nel contesto delle uscite attuali, alle migliori delle quali non ha nulla da invidiare.

www.panopticonmag.com

giugno 19, 2010 at 10:11 am Lascia un commento

Amabili resti di Peter Jackson ( dvd e b-ray )

«Mi chiamo Salmon, come il pesce: il mio nome è Susie. Avevo 14 anni quando sono stata uccisa». Il signore degli anelli Peter Jackson torna nella terra di mezzo: ma questa volta non ci sono hobbit e neppure elfi. Solo fiori recisi, creature del cielo strappate al mondo. Là, nel limbo del nostro rimpianto, zona franca dell’anima, eternità precaria,  frontiera del nulla, del «dopo», atto di fede oltre la vita dove il Paradiso ancora una volta  (ma non per sempre) può attendere.  Ci voleva coraggio e un regista di peso (e no, non stiamo parlando della sua stazza  fisica…) per portare sullo schermo il libro cult di Alice Sebold, uno dei romanzi più originali, suggestivi, interiori  ma anche  meno cinematografici, degli ultimi anni: ci voleva uno che ha dato del tu a Tolkien e si è messo sulle spalle la tenera  mostruosità di King Kong. E adesso accarezza gli «amabili resti» cresciuti intorno all’assenza. Firmando, in bilico tra questa vita e quell’altra, una riflessione, anche molto dolorosa ma non disperata, sulla perdita, sul vivere «senza», su quello che poteva essere e non è stato: perché prima o poi siamo tutti navi nella bottiglia, velieri che non possono andare in nessun posto ancorati per sempre (apparentemente, almeno) a un porto senza mare e senza vento. Film sospeso, rischioso ma mistico e immaginifico, «Amabili resti» si muove sul confine non così sottile tra due mondi – là dove la morte non è la fine ma solo parte del viaggio – per seguire la storia, terrena e non, di Susie, adolescente degli anni ’70, una bella famiglia, la prima cotta, un buffo cappello sulla testa. E un campo di grano dove abita l’orco: che la invita a seguirla – come il coniglio bianco con la smarrita Alice – in un buco sotto terra. Dove però non l’aspettano chissà quali meraviglie: ma solo la, tragica, fine. Uccisa, Susie, ma non solo: intrappolata in un mondo perfetto, nel limbo della nostalgia, prima del grande cielo. In un aldilà da dove osserva,  spettatrice delle vite degli altri, lo strazio della sua famiglia: lontana, eppure sempre presente, nei destini di chi non la dimentica. Ma deve andare avanti anche senza di lei. Singolare thriller trascendente, il film di Jackson si immerge negli occhi blu profondo della sua protagonista (Saoirse Ronan, che già ci aveva impressionato in «Espiazione») , creando con l’aiuto della Weta (la stessa che ha «inventato» l’universo di  «Avatar») un mondo onirico e senza pareti (debitore più a Dalì che a De Chirico)  figlio di una coscienza emotiva.  Nel continuo alternarsi tra reale – le villette tutte uguali dell’America più anonima dove tira una bella aria anni ’70 (anche la luce è giusta, è quella, non solo le pettinature) – e soprannaturale (gli spazi sconfinati, e vagamente new age, di un oblio che non è tale), il regista de «Il signore degli anelli», complici un grande Stanley Tucci,  mostro banale che costruisce case per le bambole (candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista) e a una splendida Susan Sarandon, nonna un po’ hippie sopravvissuta a tutti i colpi bassi della vita grazie a un buon  bicchiere di scotch, gira un film difficile che non piacerà a tutti, anzi destinato a dividere: ma se Jackson non sempre coglie  le intime sottigliezze del libro, «Amabili resti», prodotto da Spielberg (la colonna sonora, invece, è composta da Brian Eno), ha comunque (anche nell’eventuale imperfezione) una sua intatta  magìa, una capacità di fusione tra il quotidiano e l’eterno, una spiritualità anche laica che dà forza e personalità a chi sa che anche il più atroce degli addii è solo un arrivederci.

Filiberto Molossi (www.gazzettadiparma.it)

giugno 18, 2010 at 11:08 PM Lascia un commento

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