Archive for Maggio, 2010

Dirtmusic – Bko ( cd+dvd – 2lp+cd+dvd )

Una valigia da ritirare al nastro bagagli, porta la scritta BKO, all’interno sono conservati i momenti unici e speciali di tre musicisti giramondo al ritorno da un’esperienza che cambierà le loro vite. Un mese è passato dal loro arrivo in Mali, inizio di un percorso umano e musicale che dalla capitale Bamako li porterà fino al Festival du desert a Essekane, ad un passo dall’eldorado magico di Timbuktu. E come in ogni viaggio importante ci sono gli incontri, quelli casuali che per magia producono la scintilla capace di generare la bellezza, come avvenuto con Ousmane Ag Mossa e i suoi Tamikrest, giovane band Tuareg, figli legittimi dei Tinariwen, una session spontanea nata sotto la loro tenda e completata in dieci giorni nel leggendario Bogolan studio fondato da Ali Farka Tourè. Finalmente a quasi un anno di distanza e a due dal precedente album dei tre, arrivano queste dieci perle, nove originali e una clamorosa rilettura del classico dei Velvet UndergroundAll Tomorrow’s Parties”. Rispetto all’esordio ciò che colpisce è che Dirtmusic è diventato un vero e proprio gruppo, i brani non riportano più alle esperienze dei singoli, il lavoro è collettivo, fluisce meravigliosamente, dall’ipnotico groove di “Black Gravity” in apertura, al funk polveroso di “Ready For The Sign”, passando per il mantra lisergico della fantastica “Desert Wind” e arrivando al banjo di Chris Brokaw in “Unknowable”, capace di fondere le suggestioni dei deserti africani con quelli americani spingendo il nostro viaggio sempre più a sud seguendo le rive del grande fiume in “Niger Sundown”, capolavoro del disco, insieme perfetto di esoteriche suggestioni che scavalcano ogni possibile confine. Niente finisce, tutto rimane, alcune cose apparterranno ai ricordi indelebili di una grande esperienza, la sintesi perfetta è nella conclusiva “Bring It Home” che arriva a concludere un disco prezioso, unico e irripetibile.

Maggio 31, 2010 at 4:25 PM Lascia un commento

Jackson Browne e David Lindley – Love is strange ( cd )

Ci si trova spesso a fare ragionamenti di questo genere, ormai: un altro disco dal vivo? Tocca farlo anche con Jackson Browne, che negli ultimi 7 anni ha pubblicato un solo disco di inediti, e tre album live, tutti acustici: i due volumi della serie “Solo acoustic” e questo “Love is strange“. Come capita in casi di pubblicazioni seriali un po’ ripetitive, l’ultimo album è il migliore, quello che si sarebbe dovuto pubblicare per primo, e anche quello che probabilmente godrà della minor esposizione mediatica a causa delle uscite precedenti. La storia di questo album è la seguente: nel 2006 Jackson Browne si è riunito per un tour con il vecchio compagno di strada David Lindley. La parte spagnola del tour ha avuto diversi ospiti locali e amici (Browne ha vissuto a lungo da quelle parti).
La presenza del polistrumentista (molti se lo ricorderanno soprattutto per il falsetto di “Stay“, qua ovviamente riproposto) fa la differenza, e le canzoni assumono un’altra veste rispetto ai due live precedenti, grazie all’aggiunta di una seconda chitarra, o tutte quelle amenità acustiche che Lindley è in grado di produrre. La scaletta è da “best of”, con l’aggiunta di alcuni brani dello stesso Lindley (come “El rayo X“. Anche se il tutto si indebolisce quando Browne cede le parti vocali ai suoi amici spagnoli: il simbolo è la versione di “These days”, magistrale dal punto di vista strumentale; ma debolissima nella parte vocale di Luz Casal, che ha una bella voce ma un brutta pronuncia.
Insomma, al di là di tutto, “Love is strange” è un disco consigliatissimo agli appassionati del rock californiano, ma non solo.

Gianni sibilla (www.rockol.it)

Maggio 29, 2010 at 11:06 am 2 commenti

Micah P. Hinson – And the Pioneer Saboteurs ( cd – lp )

Il terzo album del giovane quanto talentuoso artista di Memphis Micah P. Hinson – accompagnato questa volta dai Pioneer Saboteurs – è un sorprendente gioiello, un album vibrante e intenso nell’ambito del filone “Americana” infarcito di immaginario USA country/folk/cantautorale ma con un livello di ispirazione che arriva talvolta a sfiorare le vette del Tom Waits giovane e traboccante sentimentalismo. E tuttavia le parole qui passano in secondo piano dinanzi all’imponenza della musica. Come in nessun altro disco precedente, la cura e la ricchezza strumentale degli arrangiamenti prevalgono sull’impatto fisico, sull’urlo nudo. Tanto che la voce baritonale del protagonista lascia spesso spazio a maestose tessiture strumentali, facendo scalare picchi di emotività all’ascoltatore tramite magnifici esempi di folk orchestrato. Ha rischiato grosso il buon Micah, a questo giro. Ma ha sbancato il tavolo.

Maggio 28, 2010 at 6:46 PM Lascia un commento

The National – High violet ( cd – 2lp )

Aspettare tre anni prima di pubblicare un nuovo album non è un attesa così lunga se tutti hanno nelle orecchie una canzone come “Fake empire”: non solo uno dei brani più belli scritti nei primi dieci anni del ventunesimo secolo, ma anche un brano che ha segnato indelebilmente un’epoca che ha visto salire alla presidenza degli Stati Uniti Barack Obama. Un politico democratico e di colore che, in ogni suo comizio elettorale, veniva anticipato da quella canzone che raccontava la delusione per la caduta dell’impero statunitense di fronte al mondo e del tentativo di ricominciare.
Così i National sono passati da essere una band di culto di Brooklyn (anche se originari di Cincinnati) ad un fenomeno musicale che ha contribuito a uno quegli scossoni che solo un popolo come quello americano può immaginare e, talvolta, realizzare.
Tre anni dopo gli Stati Uniti sono travolti dal cambiamento, mentre noi trepidiamo nell’attesa di ascoltare il seguito di quel “Boxer” che conteneva sì “Fake empire”, ma col tempo aveva dimostrato di essere un disco stupendo pieno della poesia e della tensione che i National infondono in ogni loro canzone.
“High violet” ci arriva in anteprima grazie allo streaming offerto per pochi giorni dal sito del New York Times  in qualità assai migliore della versione rintracciabile in rete.
Lo scenario si apre con “Terrible love” e sull’intreccio di chitarre su cui Matt Berninger inserisce la sua voce, più scura che mai, per raccontare la sua storia di solitudine, quell’amore terribile il cui pathos cresce fino ad esplodere in un finale pieno di tensione e rumore, una struttura simile a “High violet” ma in cui l’esplosione sembra tutt’altro che liberatoria.
I National mettono subito in chiaro le proprie carte componendo un album in cui ritroviamo le qualità con cui si erano fatti apprezzare in passato amalgamate in un sound ancora più corposo e unico. La voce cavernosa di Berninger e le sue stupende liriche, le melodie e gli arrangiamenti dei fratelli chitarristi Derringer e la ritmica tesa e vagamente new wave dei fratelli Devendorf sono le colonne portanti di ogni canzone di questa band che sembra aver trovato non solo una proprio sound originale e di ampio respiro, ma anche una vena compositiva che non mostra confini.
Basta ascoltare la malinconica “I’m afraid of everyone” che lentamente si spiega e svanisce in una nuvola di chitarre, la pulsante “Lemonword” o l’acustica “Runaway”, gli arrangiamenti di fiati di “England” e il suo finale corale per rendersi conto di avere tra le mani un disco eccezionale, un gioiello oscuro che rilascia tutta la sua luce man mano che lo si ascolta.
Così, mentre cerchiamo di catalogare questa opera straordinaria, i National sono già da un’altra parte spinti da quel finale sorprendente di “Vanderlyle crybaby geeks”, un’altra canzone che non ci lascerà mai più.

(Giuseppe Fabris)

www.rockol.it

Maggio 26, 2010 at 6:59 PM Lascia un commento

Gli abbracci spezzati di Pedro Almodovar ( dvd )

Mateo Blanco è stato un regista. Oggi non lo è più. È un non vedente che ha deciso di tagliare i ponti con il passato cambiando anche nome. Ora firma romanzi, soggetti e sceneggiature con lo pseudonimo Harry Caine. È ancora un uomo affascinante che ha deciso di prendere dalla vita quello che gli può ancora dare ma, al contempo, che sa di avere un grande bisogno dell’assistenza della produttrice Judit e di suo figlio Diego. La donna conosce perfettamente il tragico triangolo che ha visto coinvolto Mateo, il ricco Ernesto Martel e l’affascinante Lena. Harry deciderà di narrarlo anche a Diego.
Pedro Almodóvar può essere definito il Giano Bifronte del cinema contemporaneo. Come l’antica divinità ha uno sguardo che si volge al passato e uno indirizzato al presente e al futuro. Alternativamente, e secondo modalità che verrebbe da definire programmatiche, ce ne presenta ora l’uno ora l’altro. Se in Volver l’occhio era rivolto a un presente di passioni e di sentimenti che si volgevano verso un passato individuale che ne innervava l’essenza, in Gli abbracci spezzati lo sguardo è rivolto rigorosamente all’indietro, verso il cinema e il piacere della costruzione narrativa tanto inattaccabile quando fredda.
Tutto è magistrale nel suo cinema e quindi anche qui. La cecità come condizione esistenziale in cui l’immagine si fa ricordo, il cinema classico che finisce con l’ispirare addirittura il titolo del film (la sequenza del ritrovamento dei due cadaveri colti abbracciati dalla lava in Viaggio in Italia di Rossellini vista dai due protagonisti in un momento di distesa intimità), il cinema che narra il farsi del cinema nello stesso momento in cui mette in gioco un artificio narrativo tanto palese da dover essere denunciato («Questo è un fatto che succede solo nei film»). Tutto ciò e molto altro è presente nel film del regista mancheco che sfoggia come sempre rigore stilistico e cinefilico. Onore al merito. Ma la sua grandezza si esalta maggiormente quando, sulle orme del suo conterraneo letterario, combatte, vincendo, con i mulini a vento che agitano il cuore dell’essere umano.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

Maggio 25, 2010 at 4:24 PM Lascia un commento

Voglio la testa di Garcia di Sam Peckinpah ( dvd )

Forse il film più “sincero” e scoperto di P. (il che non significa, necessariamente, il più bello. Ma è poi importante?).
Innanzitutto per la funzione e il peso del personaggio femminile: Elita, entraineuse di bassa estrazione e di altrettanto infimo livello in locali di terz’ordine di Città del Messico. La gelosia retrospettiva di Benny per Garcia, ultimo amante di lei, mette, nella macabra impresa del protagonista, un di più di accanimento e di odio (vedi il rimando a Cane di paglia, riconfermato qui dalla sequenza degli hippies che tentano di violentare Elita e verranno sterminati da Benny) che si rovescia, dopo la morte della donna, in odio-amore, macabra preservazione (la testa nel sacco coperto di mosche, i blocchi di ghiaccio per impedirne la putrefazione, la risposta al ragazzo: «ho un gatto morto che apparteneva a un mio amico») del simbolo marcio di una possibilità frustrata, l’amore. «Tu pensa al bambino, io penserò a lui», dice Benny alla figlia del jefe.
Il tema della donna, come unica “proprietà”, e dell’amore come luogo dell’esistenza non toccato dall’abiezione si complica e si dilata nell’opposizione ideologica, drammaturgica e figurativa, vero asse portante del film, tra “miserabilismo” e “sviluppo”.
Il miserabilismo dei poveri villaggi messicani attraversati da Benny e Elita, di quelle spelonche fatiscenti dove la vita marcisce prima di essere sotterrata, ma anche il miserabilismo di Benny, finito a fare il barman in un locale infimo, della sua compagna e dello stesso Garcia, povero “stallone” che vendeva la propria virilità.
Faccia capovolta e sfruttata di uno “sviluppo” che è soltanto maschera della violenza più atroce: si veda, subito dopo l’ordine e la promessa del jefe, la partenza sfrecciante delle auto e degli aerei degli assassini, il loro comportamento manageriale, la tecnologia del delitto, ecc. Ma dietro c’è il Messico padronale e schiavistico del jefe, l’autoritarismo patriarcale e paterno, il silenzio nero delle donne in preghiera che fanno corona alla disperazione della ragazza umiliata. E questo è la “verità”, permanente, dell’altro.
In questo senso, per P. la storia si è davvero fermata, e dietro le apparenze del movimento e del mutamento riaffiorano contrasti elementari e violenti, opposizioni permanenti e irriducibili. E nessun cambiamento è possibile: né l’approdo alla città sognata da Elita, né la possibilità di mutar vita vagheggiata da Benny.
Il viaggio (struttura fondamentale e ricorrente del cinema di P.), l’inseguimento, la caccia, la persecuzione hanno un traguardo obbligato, e la violenza dell’amore e della strage sembra esorcizzarne, ma inutilmente, la vicinanza.
Soltanto la natura (protagonista lirica delle immagini di apertura e, poi, sfondo decisivo agli abbandoni di Benny e Elita nella sequenza del picnic) sembra aver conservato una misura di integrità e di lindura (l’indugio liricizzante della camera ha qualcosa di tristemente ironico) che contrasta con l’irredimibile abiezione degli uomini e delle loro cose.
Sul conto della “sincerità” e della “confessione” si dovranno mettere anche, in un autore tutt’altro che “ingenuo”, indugi e ripetizioni, cadute nella truculenza (sequenze del cimitero). Ma anche, nella protratta delusione dei meccanismi compensativi dello spettatore, i rabbiosi, deliranti monologhi di Benny, le sue invettive cariche di amore travestito di odio e profanazione a quella povera testa dalla quale egli non saprà più staccarsi (omaggio postumo e devozione estrema, attraverso un transfert macabro-sostitutivo, a Elita ma anche, per affinità, alla figlia del jefe), sino alla strage, compiuta anche per conto di Elita, Garcia e degli altri “miserabili”, e all’autodistruzione. Il capovolgimento è completo: scompaiono gli uomini (soprattutto i pochi “veri”) e le loro passioni e violenze, resta il denaro, vanificato nel suo valore d’uso. Quello per cui Benny si era cacciato in un’impresa strumentale di cui aveva cominciato a vivere, invece, il “risarcimento” (proprio quello che non doveva fare).
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005

Adelio Ferrero

Maggio 24, 2010 at 7:04 PM Lascia un commento

The Black Keys – Brothers ( cd – 2lp )

Black Keys erano destinati a cambiare, ormai lo si era capito. L’incontro tra il duo di Akron e il produttore Danger Mouse per la registrazione dell’album “Attack and Release” è stato solo l’inizio. Poi sono arrivati il progetto “Blakroc“, crocevia tra il loro rock-blues e l’hip-hop di gente come RZA e Mos Def, e l’album solista del cantante Dan Auerbach. Ora è la volta del nuovo disco “Brothers”, registrato nei mitici studi Muscle Shoals Sound di Memphis, uno dei templi americani del rhythm’n’blues: in quel luogo, tra gli anni ’60 e ’70, sono passati tra gli altri Aretha Franklin, Wilson Pickett e i Rolling Stones. Insomma, gli elementi per un disco davvero diverso dal passato c’erano tutti. E Dan Auerbach e Patrick Carney – che hanno prodotto il disco in prima persona, ad eccezione del singolo “Tighten up” affidato a Danger Mouse – non hanno affatto tradito le attese. Il loro non è stato solo un viaggio geografico alla volta di Memphis, ma soprattutto una svolta musicale: dal blues sporco delle origini, il gruppo si è spostato verso il soul e il funk.

Certo, non c’è stato nessuno stravolgimento radicale, ma una significativa evoluzione sì. “Brothers” è un album molto più incentrato sul groove e su tessuti ritmici più elaborati rispetto al passato. Le chitarre non sono sparite, ma sono sempre più spesso tenute sottotraccia. Si sentono spesso parti di basso e tastiere, persino di mellotron. La novità si capisce sin dall’apertura di “Everlasting light“, dove Auerbach si esibisce in un sorprendente falsetto alla Prince. Se in alcuni casi il gruppo rimane a metà strada tra passato e presente, come in “Next girl”, altre volte l’evoluzione è lampante: basta sentire “Howling for you”, con quel coinvolgente tappeto di batteria, l’incedere funky della già citata “Tighten up” o il quasi rap di “Sinister Kid“. A volte la band sconfina in sonorità Motown, come in “Ten cent pistol” e “I’m not the one“, una canzone attorno alla quale si aggira il fantasma di Marvin Gaye.
Anche la voce di Dan Auerbach ha dovuto adattarsi: è più vellutata, come nella splendida conclusione di “These Days“, così lontana dalla rabbia da bluesmen metropolitani degli inizi. E i difetti? Sicuramente il numero eccessivo delle canzoni, ben quindici. E poi forse qualche fan della prima ora, che si è innamorato del garage di “10 am automatic” o di “Just got to be“, avrà l’amaro in bocca. Ma è giusto che un artista a volte si prenda la libertà di scontentare qualcuno. Ormai il viaggio dei Black Keys è cominciato, resta da capire dove li porterà. Ma una cosa è certa: la direzione è quella giusta.

Giovanni Ansaldo (www.rockol.it)

Maggio 22, 2010 at 11:36 am Lascia un commento

ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER – True Love Cast Out All Evil ( cd )

Ci sono dischi che vengono da lontano. Dischi in cui, prima ancora della musica, viene la storia che hanno da raccontare. Dischi che chiedono di immergersi fino in fondo tra le loro pagine, se si vuole davvero catturarne l’essenza.
“True Love Cast Out All Evil” non è soltanto il primo disco di Roky Erickson da quindici anni a questa parte. Non è nemmeno il semplice frutto dell’incontro tra il passato garage-psych dei 13th Floor Elevators e il presente indie-folk degli Okkervil River. È piuttosto una sorta di autobiografia musicale, il diario di una vita tormentata e sempre sospesa sul vuoto. Ancora di più, è un viaggio al termine della notte in cui il buio della follia giunge a sfociare nella ricerca di una rivelazione.

Il fruscio di una vecchia registrazione sembra sbucare dal nulla, trasportando lontano nel tempo e nello spazio, tra le mura opprimenti di un manicomio criminale. Non è un vezzo lo-fi, quello dell’iniziale “Devotional Number One“: è un brandello di esperienza, una testimonianza diretta degli scarni bozzetti raccolti con una chitarra e un microfono di fortuna da Roky Erickson nel corso degli anni, a partire dal giorno in cui venne rinchiuso per la prima volta in un ospedale psichiatrico, alla fine degli anni Sessanta. Declamava frasi sconnesse in preda agli acidi e la terapia a base di elettroshock e psicofarmaci che gli venne imposta al Rusk State Hospital non fece altro che peggiorare la situazione: le sue canzoni rimasero l’unica cosa a cui potersi continuare ad aggrappare.
I brani di “True Love Cast Out All Evil” vengono proprio da quell’archivio di registrazioni dimenticate, cui qualche anno fa aveva già attinto anche l’acclamato “Never Say Goodbye“. Il leader degli Okkervil River, Will Sheff, ha avuto a disposizione una sessantina di demo tra cui scegliere i brani da rileggere al fianco di Erickson: ha voluto cercare di cogliere quelli secondo lui più emblematici rispetto alla traiettoria umana dell’ormai sessantatreenne icona della psichedelia americana, offrendo l’ausilio degli Okkervil River come backing band d’eccezione. “Non è un cinico comeback record“, tiene a sottolineare, “sono le migliori canzoni che Roky abbia mai scritto, rimaste inedite a causa di decenni segnati da tragedie personali che avrebbero distrutto qualunque persona con una minore capacità di ripresa”.

Più che un disco di nuove canzoni, “True Love Cast Out All Evil” si presenta allora come una summa della vita di Erickson declinata al presente, dalle ossessioni della schizofrenia sino al percorso di una lenta rinascita. Il prologo e l’epilogo dell’album, però, sono stati conservati da Sheff in tutta la loro nudità, con l’unica aggiunta di una cascata di archi a farsi strada all’improvviso tra voci e rumori di sottofondo. Così, l’invocazione di “Devotional Number One” suona come il grido di uno spirito perduto che anela alla possibilità di risorgere: “Don’t wait to Christ to come / He has already risen“. Gli Okkervil River entrano in scena quasi con discrezione, disegnando un country-folk alla Kris Kristofferson intorno ai terribili ricordi evocati in “Ain’t Blues Too Sad” dalla voce rauca di Erickson: “Electricity hammered me through my head / Till nothing at all was backwards instead“.
L’inizio della collaborazione con gli Okkervil River, uniti a Erickson dalle comuni radici texane, risale al 2008, quando la band lo ha accompagnato in occasione degli Austin Music Awards. Sheff e soci mostrano di volersi adattare alla personalità delle canzoni, dal vivace profumo byrdsiano di “Bring Back The Past” al riff granitico di “John Lawman“, che richiama l’hard rock dei dischi a base di alieni e vampiri realizzati da Erickson negli anni Ottanta. Ma è quando la band non teme di lasciare la propria impronta che gli esiti diventano più compiuti, dalle tinte folk di “Birds’d Crash” e “Forever” fino a “Think Of As One“, con una chitarra che sembra uscita da “The stage names” e un accompagnamento di fiati e percussioni capace di farne uno degli episodi più accattivanti del disco.

L’ultima apparizione discografica di Roky Erickson, risalente al 1995 con “All That May Do My Rhyme“, scontava il limite di un’eccessiva pulizia e di una realizzazione sin troppo convenzionale. Gli Okkervil River si accostano invece alle canzoni di Erickson con il rispetto di chi non vuole snaturare la musica di uno dei propri eroi, ma anche con il desiderio di liberare ogni obliqua scintilla di genio, facendola suonare più che mai attuale. Il pensiero corre inevitabilmente alla cura dedicata dal compianto Mark Linkous alle composizioni di un altro stralunato songwriter, Daniel Johnston, in “Fear yourself“: un approccio che ricorda da vicino quello seguito da Will Sheff nella produzione di “True Love Cast Out All Evil“.
Goodbye Sweet Dreams“, cantata con candida intensità da Erickson nelle scene finali del documentario “You’re Gonna Miss Me” del 2005, assume un andamento epico, tra schegge di distorsioni e di elettricità. “Please Judge“, già in “All That May Do My Rhyme“, rallenta fino a diventare una supplica (“Don’t send or keep that boy away“), interrompendosi in un caotico intermezzo di rumori: è il frastuono di cui Erickson doveva circondarsi per cercare di sovrastare le voci che lo perseguitavano. Poi, sulle note del pianoforte, “Be And Bring Home” (portata alla luce in “Never Say Goodbye“) acquista la solennità di una ballata a metà strada tra Warren Zevon e John Fogerty. Ed Erickson confessa con struggente schiettezza tutto il suo bisogno di ritrovare una casa: “Suddendly I may control / Take little things meaning big so I’m not alone / Suddenly I’m not sick / Won’t you be and bring me home“.

Ma quella di “True Love Cast Out All Evil” non è una storia di disperazione: al contrario, è una sofferta celebrazione della speranza. Lo suggerisce il brano che dà il titolo all’album: i demoni dell’animo possono essere vinti, il male non è destinato a prevalere. “Di solito non credo alle storie sui miracoli”, afferma Sheff nelle corpose liner notes del disco. “Tuttavia, avendo visto di persona quello che è successo nella vita di Roky, mi sorprendo di essere io stesso a garantire che il suo riscatto è reale. È una cosa che mi fa sentire piccolo e umile, il che è un bel modo di sentirsi”.
La parola torna così a quella traballante chitarra, rimasta fedele anche nei frangenti più travagliati della vita. Annuncia la conquista di una nuova coscienza, che nell’eco sgranato della voce di Erickson si spoglia di ogni retorica, per penetrare fino alla stoffa della realtà: “God is everywhere / Everywhere is where / And everywhere as all positivity“. Splendida follia, quella che porta a guardare il mondo con questi occhi.

Gabriele Benzing (www.ondarock.it)

Maggio 15, 2010 at 9:40 am 1 commento

Il mondo dei replicanti di Jonathan Mostow ( dvd e b-ray )

L’agente Greer e l’agente Peters sono chiamati a investigare sull’uccisione del figlio del dottor Lionel Canter. In realtà nessuno dei tre è umano. Né Greer, né la sua collega né tantomeno il figlio di Canter. Costui è l’inventore dei ‘Surrogati’, automi che assumono l’aspetto che ogni umano desidera, uscendo in sua vecenella vita reale e lasciando il proprio ‘originale’ in carne ed ossa a casa al sicuro. Nel mondo ce ne sono ormai un miliardo ma sta accadendo qualcosa di molto strano e pericoloso per loro: sembra esserci un virus che, uccidendo il simulacro di cavi e acciaio, distrugge anche il cervello dell’umano a lui collegato. Greer vuole andare a fondo; dapprima come macchina e in seguito come essere umano.
Michael Ferris e John D.Brancato (il duo che ha scritto Terminator Salvation) ispirandosi a un fumetto di Robert Venditti e Brett Weldele hanno fatto ancora centro. Hanno cioè sviluppato due percorsi che procedono narrativamente in modo fluido tenendo viva l’attenzione sia di chi ama il thriller con aspetti fantascientifici sia di chi non disdegna riflessioni sociopolitiche. Perché per un verso abbiamo l’ormai ‘solito’ Bruce Willis, poliziotto pronto ad andare oltre le regole pur di raggiungere l’obiettivo di cui seguire l’azione (in coppia con una donna questa volta).
Dall’altro però possiamo seguire un’azione che si dipana all’interno di un interrogativo che, come sempre accade quando la sci-fi è di qualità, non è poi così distante dalla realtà sociopolitica attuale. Perché in un mondo in cui i mezzi di comunicazione (e basta assistere a certi tg nostrani) sembrano finalizzati solo a instillare la paura dell’altro (omicidi, incidenti stradali, diversi, extracomunitari ed oltre) l’idea di potersene stare a casa mentre c’è chi affronta il ‘mondo fuori’ al nostro posto rischia di insinuarsi pericolosamente nelle coscienze. Mostow riesce a far percepire con grande acume il mood di questa umanità che si ritrae, pronta a rinunciare ad essere se stessa a cui si pongono, ghettizzati, gli irriducibili.
Anche se nel film si ritrovano degli echi sia del già citato Terminator sia dello ‘squid’ di Strange Days l’originalità prevale. Ogni film che ci aiuti a riflettere sui confini etici che la scienza non può non darsi è benvenuto. Se poi sa anche essere vero entertainment il merito è ancora maggiore.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

Maggio 12, 2010 at 6:45 PM Lascia un commento

Barnetti Bros Band – Chupadero ( cd )

Epopea tex-mex-western in 11 episodi e svariati personaggi:
Vince Barnetti, cantastorie e fuorilegge (Massimo Bubola) Giovannino Barnetti, cantastorie e fuorilegge (Jono Manson) Sonny Barnetti, cantastorie e fuorilegge (Massimiliano Larocca) Billy Barnetti, cantastorie e fuorilegge (Andrea Parodi) Assunta Barnetti, moglie di Vince (Erika Ardemagni)
e ancora
l’uomo che uccise Liberty Valance (Tom Russell) Domenico Abbondanza, giovane garibaldino (Chris Barron) Don Alonso Barrio, El Reverendo de Santa Fe (Terry Allen) …
Chupadero, il disco degli italo americani fratelli Barnetti, è un disco di contaminazione, un hot stuff fra musica del border, americana, folk italiano, cantautorato, la cui tesi è dimostrare che non passa poi (troppa) differenza fra le praterie del New Mexico e le colline della Maremma. Canzoni italiane cantate in inglese, canzoni americane cantate in italiano, chitarre e fisarmoniche, per celebrare eroi e banditi on the road, da Garibaldi a Billy The Kid, da Stefano Pelloni a Hannah Snell, da Dion di Mucci a Girardengo.
Il disco si apre con Camicie Rosse di Massimo Bubola cantato in inglese da Giovannino Barnetti (con Terry Allen e Chris Barron) a cui segue in un gioco di specchi la mitica Pancho & Lefty di Townes Van Zandt cantata in italiano da Billy e Sonny Barnetti.
Bello il nuovo finale per Billy The Kid in Dove Corrono i Cavalli, dove Assunta Barnetti canta la moglie messicana del celebre pistolero. Peccato che poi ne la Ballata di Hannah Snell la parte femminile sia invece cantata da Vince Barnetti anziché, come sarebbe stato più logico, da Assunta.
Il Passator Cortese è una gran ballata folk di Vince, ritrovata anche nel disco di liscio di Massimo Bubola. Bella la canzone in cui un ispirato Sonny canta di aver visto il brigante Tiburzi con le mani inchiodate ad una pala d’altare. A questo punto del disco ormai non c’è soluzione di continuo fra la ballata del brigante della maremma e il folk americano di Red Dirty Road di Giovannino Tiburzi.
Mentre l’Angelo del Bronx e Camelia sono le canzoni che si incastrano meno in un melange dove gli ingredienti si fanno tanti; la prima comunque ci sta, c’era una Wilbury Twist anche in Traveling Wilburys Volume 3 (una sorta di prequel a Chupadero messo in scena anni fa da Bob Dylan – George Harrison – Roy Orbison – Tom Petty – Jeff Lynne), mentre la chanson parigina di Camelia con il New Mexico… perdonato perché c’è una “Guzzi che sfreccia lontano”.
Sante Y Girardengo (versione inglese dell’italiana “Il bandito e il campione” già nel repertorio di Francesco de Gregori) cantata (benissimo) da Tom Russel è fra i pezzi migliori dell’album.
Messico & Nuvole è Città di Frontiera di Sonny e Vince.
Insomma i fratelli Barnetti non sono i Los Lobos ma questo disco è delizioso, orecchiabile, evocativo, con un suono lussuoso e sarà una colonna sonora ideale per i momenti conviviali dell’estate 2010 che arriva.

Blue Bottazzi (http://bluebottazzibeat.blogspot.com)

Maggio 11, 2010 at 6:45 PM Lascia un commento

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