Archive for luglio, 2012

Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani ( dvd )

Nel teatro all’interno del carcere romano di Rebibbia si conclude la rappresentazione del “Giulio Cesare” di Shakespeare. I detenuti/attori fanno rientro nelle loro celle. Sei mesi prima: il direttore del carcere espone il progetto teatrale dell’anno ai detenuti che intendono partecipare. Seguono i provini nel corso dei quali si chiede ad ogni aspirante attore di declinare le proprie generalità con due modalità emotive diverse. Completata la selezione si procede con l’assegnazione dei ruoli chiedendo ad ognuno di imparare la parte nel proprio dialetto di origine. Progressivamente il “Giulio Cesare” shakesperiano prende corpo.
I fratelli Taviani erano certamente consapevoli delle numerose testimonianze, in gran parte documentaristiche, che anche in Italia hanno mostrato a chi non ha mai messo piede in un carcere come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto. Quando poi si pensa a una fusione di fiction e documentario la mente va al piuttosto recente e sicuramente riuscito film di Davide Ferrario Tutta colpa di giuda. I Taviani scelgono la strada del work in progress utilizzando coraggiosamente l’ormai antinaturalistico (e televisivamente poco gradito) bianco e nero. L’originalità della loro ricerca sta nella cifra quasi pirandelliana con la quale cercano la verità nella finzione. Questi uomini che mettono la loro faccia e anche la loro fedina penale (sovrascritta sullo schermo) in pubblico si ritrovano, inizialmente in modo inconsapevole, a cercare e infine a trovare se stessi nelle parole del bardo divenute loro più vicine grazie all’uso dell’espressione dialettale. Frasi scritte centinaia di anni fa incidono sul presente nel modo che Jan Kott attribuiva loro nel saggio del 1964 dal titolo “Shakespeare nostro contemporaneo”. Ogni detenuto ‘sente’ e dice le battute come se sgorgassero dal suo intimo così che (ad esempio) Giovanni Arcuri è se stesso e Cesare al contempo e la presenza del regista Cavalli e dell’ex detenuto e ora attore Striano nel ruolo di Bruto non stonano nel contesto. Ciò che purtroppo diventa dissonante (anche se non inficia alle radici il valore dell’operazione) è la pretesa di far ‘dire di sé’ ai detenuti. Nei momenti in cui dovrebbero uscire dalla parte per rientrare in se stessi si avverte che è proprio allora che stanno recitando un copione che parla delle loro tensioni o delle loro attese. La ricerca della verità nella finzione si trasforma in finzione che pretende di palesare delle verità. Non era necessario. Shakespeare aveva già splendidamente ottenuto il risultato.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

luglio 24, 2012 at 10:35 am 1 commento

Trembling bells & Bonnie Prince Billy – The marbles down ( cd – lp )

 

Le amabili e imprevedibili dissonanze che i Trembling Bells hanno elevato ad arte nel terzo album “The Constant pageant” sono la realtà più pregnante dell’intera scena folk. Alex Neilson e Lavinia Blackwall hanno riscoperto il fascino pagano e a volte anarchico della musica popolare, con un suono che ha radici nel folk-rock dei Fairport Convention ma seduce anche acid-rock, country, free-jazz e li circonda con atmosfere medievali.
Questa volta l’amico Bonnie”Prince” Billy è della partita, e non è difficile cogliere in rassicuranti sonorità d’organo e chitarra acustica il tentativo di raccogliere i resti di una battaglia armonica sempre furiosa e travolgente. Il singolo “New Year’s Eve’s The Loneliest Night Of The Year”, primo germe di questa collaborazione tra il geniale compositore e il gruppo scozzese, sembrava un episodio isolato, ma l’amicizia e la curiosità dei musicisti hanno sfidato le evidenti differenze con un risultato interessante.

Fiato alle trombe con cori da sabba infernale, chitarre psych-noise e un’orgia armonica che ci introduce nel loro complesso insieme di suoni: “I Made A Date (With An Open Vein)”, affascinante storia di un suicidio in cerca dell’amore perduto è una delle immagini più vivide dell’album e apre con enfasi il quarto lavoro della band.
È innegabile, i Trembling Bells prevalgono stilisticamente e la loro irruenza creativa è priva di confini: “Ain’t Nothing Wrong With A Little Longing” entra nell’acid-folk dell’Incredible String Band citando i Jefferson Airplane, con Lavinia e Bonnie che duettano senza regole tra chitarre e violini straziati, creando così il primo brano garage-folk della storia.

Alex Neilson ha affrontato con consapevolezza il ruolo di vocalist di Bonnie “Prince” Billy, che resta concentrato sul ruolo di cantante. Il suono del gruppo resta ancorato al folk-rock anni 60 e 70: sono sempre i Fairport Convention, insieme agli Steeleye Span, i padri tutelari del loro versante più tradizionale ed è sublime la creatura che nasce dall’incontro di musica medievale e neo-folk in “Ferrari In A Demolition Derby”, nella quale gli estremi si incrociano e si fondono con dolcezza.
Il songwriting non conosce momenti di stasi e trionfa nella ballad “Love Is A Velvet Noose” – i suoni sono sospesi e ricchi di seduzione, come un puzzle sonoro ricco di frammenti brevi che si fondono. Ancora suggestioni retrò per “I Can Tell You’re Leaving”, che sfida i confini della musica pop flirtando con Lee Hazlewood e sfruttando l’equilibrio dolceamaro delle due voci.
 
“The Marble Downs” non è comunque un album destinato ad attirare nuovi fan per le incandescenti creazioni barocche del gruppo, perché resta quella sensazione di antico e solenne che spesso allontana anche gli amanti del folk-revival.
La presenza di Bonnie “Prince” Billy non modifica le coordinate del suono, nonostante “Riding” si candidi come una delle migliori canzoni cantate dall’artista americano, con quel misto di folk, blues e acid-rock degno dei Grateful Dead.

Sono ancora il mistero e il mito il brodo psichedelico nel quale il folk dei Trembling Bells continua a galleggiare, anche nel mini-album pubblicato in contemporanea (“The Duchess”).
Un breve capitolo che offre non solo una versione in chiave barocca del brano di Scott Walker che dà il titolo al mini album, ma anche folk medievale e splendidi incastri a più voci prima con Bonnie “Prince” Billy (“I’ll Be Looking Out For Me”) e in seguito con i Muldoons Picnic, un eclettico ensemble scozzese abile nel rivisitare pop e folk con cori a cappella e intriganti arrangiamenti in “Dancing On The Breath Of God”.

Piaccia o no, la musica dei Trembling Bells resta incurante della mediocrità che accompagna di questi tempi il folk-revival, e “The Marble Downs” è l’ennesimo trionfo. 

Gianfranco Marmoro (www.ondarock.it)

luglio 21, 2012 at 5:52 PM 2 commenti

E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay ( dvd )

Eva ha messo da parte le sue ambizioni professionali e il suo amore per New York per crescere Kevin in provincia e in tranquillità, ma il rapporto tra madre e figlio è sempre stato complicato, fin dal principio. Da neonato non smetteva mai di piangere, da bambino non parlava, poi non ha mai fatto altro che disobbedire. Tutto contro la madre, per provocarla e addolorarla. A 16 anni, infine, Kevin ha premeditato e commesso il peggio: una strage, a scuola. Due anni dopo, Eva ripercorre i ricordi, in cerca delle proprie mancanze, delle proprie responsabilità e di un perché.
Per il suo terzo film, la regista Lynne Ramsay ha trovato ispirazione nel controverso romanzo di Lionel Shriver, ovvero di un’altra donna, nonostante il nome. D’altronde al centro del dramma ci sono alcune tra le domande che più scuotono l’identità femminile: come gestire la responsabilità della maternità, per esempio, il suo essere, da un preciso momento in poi, per sempre e nonostante tutto. E il cuore del film è sicuramente nella storia d’amore tra madre e figlio, un amore-odio, pieno di ambiguità e di non detti, fatto non si sa bene se di troppa remissione, di eroica resistenza o di incontrollabile destino. Lo porta in superficie Tilda Swinton, con la rigidità che è corazza del personaggio, in verità esploso dentro, ma anche con una varietà di emozioni ben impressionanti. Non la si vedeva così convincente dalla prova di Michael Clayton.
Sul fronte estetico il film è molto insistito. Troppo. Il colore del sangue è declinato e ripreso in tutti i modi possibili, con la sequenza dedicata e disturbante dei corpi imbrattati e annegati nel pomodoro – che setta immediatamente gli assi cartesiani della tragedia in corso, quello lirico e quello quotidiano, famigliare – e poi con la vernice, la marmellata, la stampa sulla T-shirt, le ferite, i bersagli. Anche il montaggio è studiatissimo, rimescolato al millimetro, costruito per la tensione. A questa estrema eleganza di modi e di temi del girato corrisponde e al contempo sfugge il tappeto sonoro, magnificamente lavorato, dal quale passa, senza soluzione di continuità, il flusso sentimentale del film: il dolore, la paura, la rabbia, lo sprazzo di felicità e la disperazione della protagonista.
Non tutto convince, in … E ora parliamo di Kevin, ma il colpo arriva comunque allo stomaco, perfettamente assestato, come tirato con l’arco da un professionista.

Marianna Cappi (www.mymovies.it)

luglio 20, 2012 at 9:46 am Lascia un commento

La Talpa di Tomas Alfredson ( dvd e b-ray )

Londra, 1973. Control, il capo del servizio segreto inglese, è costretto alle dimissioni in seguito all’insuccesso di una missione segreta in Ungheria, durante la quale ha perso la copertura e la vita l’agente speciale Prideaux. Con Control se ne va a casa anche il fido George Smiley, salvo poi venir convocato dal sottogretario governativo e riassunto in segreto. Il suo compito sarà scoprire l’identità di una talpa filosovietica, che agisce da anni all’interno del ristretto numero degli agenti del Circus: quattro uomini che Control ha soprannominato lo Stagnaio, il Sarto, il Soldato e il Povero.
John Le Carré, prima di diventare uno dei massimi esponenti della letteratura di spionaggio, è stato dipendente del MI6 e ha effettivamente visto la propria carriera interrompersi a causa di un agente doppiogiochista al soldo del KGB. Di questa trasposizione per il grande schermo Le Carrè stesso ha dichiarato: “sono orgoglioso di aver consegnato ad Alfredson il mio materiale, ma ciò che ne ha realizzato è meravigliosamente suo”, e non potrebbe esserci verità più lampante e gradita.
Meno rispondente, forse, al sapore del libro ricreato in sede televisiva trent’anni fa con un grande Alec Guinnes e il plauso incondizionato dell’autore, la Talpa di Alfredson soffrirebbe dentro qualsiasi schermo più piccolo di quello cinematografico. Perché è di un gran film che si tratta, di quel genere di film che è reso tale dalla perfezione delle parti e da qualcosa di più.
Visivamente impeccabile -elegante e vivido al punto che si sentono l’odore della polvere sui mobili, il leggero graffiare del tessuto dei cappotti, il fumo delle sigarette, l’umido, i sospiri-, il film ha una delicatezza che non si direbbe possibile sulla carta, parlato moltissimo com’è, da attori dal peso specifico enorme (dei quali il recentemente oscarizzato Colin Firth è in fondo il meno impressionante).
Lo Smiley di Gary Oldman è il più leggero ed immenso, col passo felpato e il cuore gonfio, non si sa se più fragile o più terrorizzante, impossibile cioè da “catturare” in un’impressione univoca. Qualcuno che confonde: un virtuoso del proprio mestiere di segreto ambulante.
Ma il vero valore aggiunto del film, il tocco che quasi riscrive il genere di appartenenza di questa pellicola, è il suo cuore sentimentale, addirittura romantico. Trattenuto, imploso, mostrato per piccoli indizi, quasi fossero distrazioni, il sentimento amoroso (tragico ma vitalissimo) è ciò che scalda il film di Alfredson da cima a fondo: il punto debole che fa la sua forza, il dettaglio che fa la sua grandezza.

Marianna Cappi (www.mymovies.it)

luglio 17, 2012 at 6:40 PM Lascia un commento

Sulla strada di casa di Emiliano corapi ( dvd )

Alberto ha una moglie, due bambini e una piccola impresa che versa in cattive acque. Stimato oltremodo dalla consorte, che giudica troppo sincera e ingenua, Alberto le nasconde di ‘arrotondare’ la vita facendo il corriere per gente poco raccomandabile. Alla vigilia del secondo viaggio qualcosa però va storto e la sua famiglia è presa in ostaggio da tre malviventi interessati al prossimo carico. Partito dalla provincia ligure alla volta di Reggio Calabria, Alberto dovrà ritirare il pacco illecito e consegnarlo ai sequestratori. Ma niente andrà come previsto. Sulla strada di casa l’impresario dovrà risolvere e risolversi, salvaguardando la vita e il futuro della sua famiglia.
Opera prima e pluripremiata di Emiliano Corapi, Sulla strada avvia una biografia ordinaria e minacciata nel sogno di una vita borghese e procede nella follia e nell’angosciosa tensione di un inseguimento. Combinando fino a confondere realismo e genere, Corapi scrive e gira un racconto visivamente rigoroso, dove il budget modesto e gli schematismi dell’intreccio rendono ancora più essenziale la corsa del protagonista verso un destino ineluttabile.
L’Alberto di Vinicio Marchioni incarna l’uomo ordinario, assediato dalla vita e chiuso in primi piani claustrofobici e senza dialoghi che rimandano a un’inquietudine interiore e generano la sensazione di non essere più padroni di se stessi. La funzione opprimente della macchina da presa sul personaggio, lanciato in una corsa inquieta attraverso strade secondarie sotto il sole netto del giorno e davanti alle luci artificiali di un albergo ‘come quelli dei film americani’, rispecchia la condizione di vita all’interno di una società capitalista e indebitata, che strozza e istiga rimedi estremi. Al centro del film c’è un impresario esemplare, che ha deciso di sporcarsi le mani e rendersi complice di un meccanismo economico criminale identificato con l’Italia stessa, percorsa in tutta la sua lunghezza e la sua miseria. La strada del titolo, promessa di un altrove, diventa presto un percorso tragicamente limitato e controllato, lungo il quale (in)segue e precede il Sergio di Daniele Liotti, doppio di Alberto con cui condivide un destino disgraziato, una scelta azzardata e un viaggio che resta in fondo solitario per ciascuno di loro. Il volto di Vinicio Marchioni perde la ‘freddezza’ e la nobilitazione tragica del bandito della Magliana (la serie) e trova la pesantezza, l’anonimato e l’opacità di un personaggio di terz’ordine, avviato al riscatto esistenziale ma poi condotto all’unica sublimazione possibile.
Un debutto apprezzabile e pregiato, quello di Emiliano Corapi, che indaga la parte peggiore di noi, quella disposta a compromettersi pur di confermare agli altri la propria immagine perfetta. Un film sui falliti e i perdenti che fa il paio con L’Industriale di Giuliano Montaldo e un cinema italiano aspro, sincero e non riconciliato, frequentato da attori autentici come Fabrizio Rongione e Donatella Finocchiaro. Un film, ancora, che fa i conti con un Paese che se si riconoscesse per quello che sa di essere sarebbe finalmente diverso.

Marzia Gandolfi (www.mymovies.it9

luglio 16, 2012 at 5:28 PM Lascia un commento

Guided by the voices – Class clown spots a Ufo ( cd – lp )

Arieccoli. Neanche cinque mesi fa avevamo concluso la recensione dell’ottimo “Let’s go eat the factory” augurandoci di non dover aspettare troppo tempo per un degno seguito, ed ecco che Robert Pollard e i suoi rinati Guided By Voices tengono fede alla loro fama di cultori della sovrabbondanza con la pubblicazione di una nuova raccolta di brani, a quanto pare destinata a fungere da seconda tappa di un trittico di album tutti in uscita entro il 2012.
Tutto assolutamente nella norma, comunque, quando di Pollard si parla. E ancor più nella norma appare una tracklist di ventuno tracce che,  fra canzoni più compiute e altre come da tradizione appena accennate, propone un modello di compattezza compositiva destinato a compiersi solamente con l’ascolto dell’opera nella sua interezza e il conseguente assemblaggio dei frammenti che la compongono.

Meno allucinato e di presa più immediata rispetto al suo predecessore, “Class Clown Spots A UFO” lascia sfilare pillole di easy listening che, pur senza far balzare dalla sedia, risultano essere deliziosamente contagiose, soprattutto nei momenti in cui il songwriting poggia su strutture solide. Impossibile non menzionare una title track McCartney-iana dalla melodia attacca-tutto o una strepitosa “Keep It In Motion”, con un rullante che fa ballare e un gustoso inserto di archi a rendere l’atmosfera più agrodolce che spensierata.
Anche quando si preme maggiormente sull’acceleratore la band dimostra di sapersi nutrire coscientemente della tradizione, rigurgitando in salsa lo-fi la lezione degli Who in “Tyson’s High School” e “Kick In The Head” e pescando l’asso con una “Jon The Croc” che riporta addirittura ai picchi d’ispirazione di “Alien Lanes”.

È comunque opportuno sottolineare che, similmente al lavoro che lo ha preceduto, anche questo album non può dirsi del tutto esente da difetti: l’ormai consolidata tendenza a sciorinare oceaniche scalette colme di brani che spesso non raggiungono i due minuti di durata solleva spesso il dubbio che, sedendosi un po’ troppo comodamente sul loro status di “paladini del frammento”, i Guided By Voices vogliano togliersi di dosso la responsabilità di proporre canzoni fatte e finite.
E se questa incompiutezza lascia l’amaro in bocca davanti a piccoli gioielli in potenza come una “Chain To The Moon” che prova a suggerire in sessanta secondi un sodalizio notturno fra R.E.M.Paul Westerberg, in alcuni momenti si ha la sensazione che certe soluzioni di estrema sintesi fungano da ancora di salvezza per evitare di sviluppare brani completamente fuori fuoco (“The Opposite Continues”, “Worm With 7 Broken Hearts”).

Comunque, al di là delle contraddizioni che ogni ascoltatore dei Guided By Voices è consapevolmente chiamato ad accettare, “Class Clown Spots A UFO” è un’opera in gran parte godibilissima, che esalta la componente pop-rock della band di Dayton e in cui i riferimenti ai grandi maestri del genere trascendono l’intento di bieco formalismo grazie al talento melodico di un Robert Pollard in ottima forma.
Così, nell’attesa di scoprire se il terzo atto della saga del 2012 saprà risolvere le poche incertezze sparse lungo il cammino, non resta che godere di questa pioggia di ritornelli irresistibili, consci del fatto che una delle figure più ispirate dell’indie-rock degli ultimi vent’anni ha ufficialmente ritrovato la Strada Maestra.

Andrea D’Addato (www.ondarock.it)

luglio 4, 2012 at 10:51 am Lascia un commento

50 e 50 di Jonathan Levine ( dvd e b-ray )

La copertina di 50 e 50 (dvd)

La vita del ventisettenne Adam scorre tranquilla, forse fin troppo. A complicare le cose arriva la peggiore delle notizie: è malato di cancro. Da quel momento il ragazzo entra in uno stato di passiva accettazione della malattia da cui nessuno sembra scuoterlo: non la sua ragazza che lo tradisce, non il suo migliore amico mattacchione, non la sua inesperta e volenterosa terapista, che tenta con lui un approccio umano. Adam continua a nascondere prima di tutto a se stesso paura, rabbia, frustrazione e tutti i sentimenti che la malattia porta con sé. Passando attraverso la chemioterapia e tutte le altre fasi della cura il ragazzo comprenderà alla fine ciò che vuole più di tutto e quali sono le persone che davvero tengono a lui.
È sempre una cosa molto difficile tirare fuori una buona commedia da un soggetto drammatico come la malattia, quindi già per il tentativo 50/50 di Jonathan Levine andrebbe applaudito. Il merito principale della sceneggiatura è quello di partire a razzo, di costruire situazioni comuni e insieme molto divertenti riguardo la scoperta del male, l’accettazione dello stato, il tentativo di non farsi abbattere in particolar modo dall’incertezza. Sotto questo punto di vista la prima parte del film è monopolizzata dalla comicità fresca e diretta di Seth Rogen, vero e proprio funambolo capace quasi da solo di alleggerire scene e situazioni dolorose. Joseph Gordon-Levitt, Anna Kendrick, Bryce Dallas Howard e tutti gli altri attori sono in parte e assolutamente convincenti, ma è senza dubbio Rogen la marcia in più di 50/50.
Dopo la prima metà in cui il film esplora con allegria e vivacità la condizione e la storia del protagonista, Jonathan Levine non riesce a nascondere però un evidente problema contenuto nella sceneggiatura stessa: la storia si ferma su una serie di scene magari anche divertenti ma che non fanno evolvere la trama vera e propria né l’arco narrativo di Adam. 50/50 però si riprende come era prevedibile nella parte finale, quando si arriva per forza di cose al confronto decisivo con la malattia. L’ultimo quarto d’ora del film è seriamente emozionante, colpisce al cuore in maniera forse anche prevedibile ma non per questo meno sincera.
Alla fine quindi, seppur a tratti molto divertente, 50/50 non è un film leggero o superficiale: grazie a un lucidità di fondo su cosa si vuole raccontare e come si intende farlo, il film pone allo spettatore una serie di interrogativi e questioni che solitamente il semplice cinema d’evasione non presenta: quando ci troviamo di fronte a un bivio, cosa conta realmente? Come dobbiamo cercare di vivere una vita che non è eterna né tanto meno garantita? Di fronte a tali quesiti Jonathan Levine e tutti coloro che hanno partecipato al progetto provano a dare risposte non preconfezionate, al contrario personali e sentite. Se anche non del tutto compiuto, oltre che per il tentativo 50/50 è un film che merita di essere apprezzato anche per questo.

Adriano Ercolani (www.mymovies.it)

luglio 3, 2012 at 9:43 am Lascia un commento

Can – The lost tapes ( 3cd )

La storia è questa: nello studio della band si sta mettendo un po’ d’ordine perché alcuni nastri devono essere ceduti al German Rock ‘n’ Pop Museum di Gronau. Improvvisamente, saltano fuori bobine completamente dimenticate contenenti registrazioni inedite, esecuzioni live, spezzoni di improvvisazioni, composizioni abortite e bel po’ di outtake. Tutta roba risalente al periodo più felice, artisticamente parlando, della grande formazione tedesca (1968-77, per capirci), a ragione considerata come una delle più influenti di sempre, capace di distaccarsi dai modelli americani per dare vita a un sound assolutamente unico, senza precedenti.
Messo a punto dal tastierista Irmin Schmidt e dal produttore Jono Podmore, questo triplo cofanetto è una vera chicca per tutti gli amanti della gruppo. Ascoltare questi brani non serve soltanto a fare un tuffo nel passato, ma soprattutto a fare i conti con il presente, tanta è la loro capacità d’insinuarsi tra le pieghe di tanta musica dei nostri giorni che quasi stenti a credere si tratti di roba risalente a trenta-quarant’anni fa.

L’inedito “Millionenspiel”, aperitivo degustato nei mesi passati, parte alla grande lanciato su autobahn motorik, sbandando tra poliritmie e svolazzi jazz, ricordandoci il perché di tanto amore e, soprattutto, la venerazione di molti per Jaki Liebzeit, uno dei batteristi simbolo di una stagione assolutamente straordinaria. Poi, un’ipnosi alla Malcolm Mooney su tappezzeria Velvet Underground (“Waiting For The Streetcar”), recinti (poli-)ritmici che prendono in ostaggio la mente (“Deadly Doris” e, soprattutto, la potentissima “Graublau”, una lunga jam impro-funk che veleggia al limite dell’utopia) e ossessioni in-dub (“Bubble Rap”).
Non mancano le cose più esoteriche, quelle che nel biennio ’68-’69 già prefiguravano in un certo senso gli spettri più malefici di “Tago Mago” (“When Darkness Comes”, “Blind Mirror Surf”) e c’è spazio anche per qualche nota di distensione, pur se ancora venata da una gelida malinconia (“Oscura Primavera”). Un primo disco davvero notevole, in cui probabilmente il solo nonsense elettro-acustico di “Evening All Day” lascia un po’ a desiderare.

Sciocchezze, in ogni caso, subito spazzate via dalla danza febbrile di “Your Friendly Neighbourhood Whore” con cui si apre il secondo disco. La qualità dei singoli brani è ancora alta, fatta eccezione per “True Story” (spoken-word immerso in un delicato fluido elettronico) e “Desert” (take germinale di “Soul Desert”, poi finita su “Soundtracks”) – numeri che, comunque, servono a spezzare un po’ il flusso tagliente e trascinante dei brani migliori: una versione live di oltre sedici minuti di “Spoon” (erano appena tre su “Ege Bamyasi”), l’intenso crescendo di “Abra Cada Braxas”, che sfocia in un’orgia freak-out, una “Dead Pigeon Suite” che, mentre cerca sbocchi verso “Vitamin C”, alterna inquiete oasi idilliache, scarti funk e polluzioni minimaliste e, infine, una zingarata acida e sudaticcia insieme a James Brown e Wilson Pickett (“Midnight Sky”).

Il terzo disco, quello più debole (che pure schizza via dalle casse, all’inizio, con un tonitruante frammento spacedelico – “Godzilla Fragment” – ma che a conti fatti appare poco incisivo nelle take live di “Mushroom” e “One More Night”), ha i suoi colpi più appariscenti nelle approssimazioni a “Mother Sky” di “On The Way To…”, negli sperimentalismi come fantasie assortite di “Midnight Men”, nell’epico trip elettro-funk di “Networks Of Foam”, nel cortocircuito temporale di “Messers, Scissors, Fork and Light” (era il 1971 ma per loro era già piena new wave, e anche la techno non era poi così lontana…) e nelle escursioni disco-funk featuring Rosko Gee al basso di “Barnacles”.
Emozionante, poi, per chi ama il primissimo Wim Wenders, ritrovarsi ad ascoltare il frammento “Alice”, che il regista di Düsseldorf usò per commentare alcune sequenze del suo quarto lungometraggio, “Alice nelle città“.

Tirando le somme, “The Lost Tapes” contiene oltre tre ore e un quarto di grande musica, a volte solo ottima, altre ancora buona, però mai scontata o prevedibile. Del resto Holger Czukay (basso), Michael Karoli (chitarra), Jaki Liebezeit (batteria), Irmin Schmidt (tastiere) e Malcolm Mooney o Damo Suzuki alla voce, durante la loro età dell’oro mai davvero sfociarono nella banalità, sempre attenti a proiettare le loro ombre oltre lo specchio del presente.
Mettetevi in casa, dunque, questo triplo box (pubblicato dalla Mute), sempre che abbiate già i loro capolavori registrati in studio. In caso contrario, datevi una mossa!

Francesco Nunziata (www.ondarock.it)

luglio 2, 2012 at 10:34 am Lascia un commento


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