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IL PROFESSORE E IL PAZZO regia di Farhad Safinia – recensione di Stefania de Zorzi
“Il professore e il pazzo” è il bel titolo del film ispirato a una storia (vera) strana e affascinante, che si dipana lungo un arco di diversi anni nell’Inghilterra vittoriana. Nel 1872 il professor James Murray/Mel Gibson, linguista esperto seppure privo di titoli accademici, viene incaricato della stesura dell’Oxford Dictionary of English Language. L’opera è immane, anche perché bisogna tracciare la storia di ogni parola nelle sue sfumature ed accezioni attraverso i secoli: un aiuto insperato arriva da William Chester Minor/Sean Penn, ufficiale e medico americano, nonché lettore onnivoro, rinchiuso per omicidio in un manicomio criminale.
Protagonista del film è il logos, la parola intesa come Verbo, principio organizzatore della realtà: Murray cerca disperatamente di catalogare e classificare una materia che per sua natura è dinamica, inafferrabile nel suo continuo mutamento, intessuta di strati sovrapposti attraverso i secoli. Chester Minor, vittima di allucinazioni e di trattamenti psichiatrici improntati di volta in volta a considerazioni umanitarie o alla barbarie sperimentale, coglie nella parola il potere di evadere da una realtà crudele e da se stesso. Nasce così un’amicizia bella e complicata fra il professore erudito e il pazzo depositario di un prodigioso sapere letterario: relazione che nel film risulta più credibile e meno incline a scivoloni melodrammatici rispetto alla storia d’amore, che determina una tragica svolta della trama nella seconda parte.
Il soggetto è interessante, sorretto da buoni dialoghi (nel primo tempo almeno, mentre il secondo si dilunga in eccessi patetici e dispute accademiche) e da attori formidabili (non solo Gibson e Penn, ma anche Natalie Dormer nei panni della vedova Merritt). Cast e sceneggiatura compensano la regia un po’ opaca di P.B. Shemran (pseudonimo di Farhad Safinia), meticoloso e di buone intenzioni, ma a tratti pedante come i filologi avversi a Murray.
Il soggetto è interessante, sorretto da buoni dialoghi (nel primo tempo almeno, mentre il secondo si dilunga in eccessi patetici e dispute accademiche) e da attori formidabili (non solo Gibson e Penn, ma anche Natalie Dormer nei panni della vedova Merritt). Cast e sceneggiatura compensano la regia un po’ opaca di P.B. Shemran (pseudonimo di Farhad Safinia), meticoloso e di buone intenzioni, ma a tratti pedante come i filologi avversi a Murray.
Rimane comunque un film da vedere, godendo dei risvolti di una storia in cui l’assenza della tecnologia spicca rispetto al genio e alla paziente e ossessiva dedizione dei protagonisti.
E’ di conforto il messaggio del perdono che vince sul desiderio di vendetta, in controtendenza rispetto alla logica spietata da codice di Hammurabi di molto cinema contemporaneo.
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