Archive for giugno, 2013
Pietà di Kim Ki-Duk ( dvd e b-ray )
Corea del Sud. Gang-do è un sadico sicario assoldato da un gruppo di usurai per riscuotere i loro debiti. Senza famiglia e senza niente da perdere, il giovane tortura e storpia di debitori i poveri debitori che non riescono a pagare. La sua prospettiva di vita cambia quando gli si presenta in casa una donna che sostiene di essere sua madre. Inizialmente scontroso e violento, col tempo si affeziona a quella figura materna finora assente che nasconde però una tragica verità.
Col suo ultimo film il coreano Kim Ki-Duk ci porta di fronte una realtà sociale contemporanea crudele e spietata. Il titolo infatti trae in inganno. Al suo interno non è presente alcun sentore di pietà: le coscienze sono unicamente mosse e governate dal denaro; tutto si muove in sua funzione e tutto viene sopraffatto da priorità che uccidono e infangano la dignità umana.
Senza pietà è Gang-do quando “violenta” le sue vittime e senza pietà, verso i loro corpi e la loro vita, risultano essere le vittime stesse, disposte a sacrificare una parte di loro per sottomettersi alle leggi del capitalismo. Una pietà che viene sottomessa al sentimento di vendetta e al forte rimorso dell’incredibile finale.
Se la prima parte del film può sembrare leggermente lenta, piatta e ambigua (comunque carica delle consuete forti e destabilizzanti immagini del regista coreano) è perfettamente funzionale alla seconda, che improvvisamente trasforma il film in un inquietante “thriller” psicologico angosciante e feroce.
Cambiando in continuazione tipo di focalizzazione Ki-Duk turba e sbigottisce le coscienze dello spettatore, muovendo nello stesso tempo una feroce critica alla società contemporanea e alla sua ideologia capitalista, usando immagini di una violenza disturbante e una tecnica impeccabile, sospinta da numerose riprese a mano e accompagnate da un montaggio ritmato e deviante e snaturante, come nella scena in cui la donna, interpretata da una superba Cho Min-soo, intona una commovente ninna nanna.
Pieta è un grande film, una superba riflessione che illumina e sconvolge al tempo stesso.
Nicolò Barabino (www.storiadeifilm.it)
Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow ( dvd e b-ray )
La caccia ad Osama Bin Laden è stata la missione che più ha impegnato l’America contemporanea, nel corso di un decennio abbondante e di due mandati presidenziali, e che più l’ha esposta, in termini di promesse e vendette, all’interno dei suoi confini e al cospetto del mondo intero. Questa è la storia di Maya, giovane ufficiale della CIA, armata d’intuito e di una determinazione dura a morire, che non si è lasciata fermare dai giochi di potere né dalle indecisioni o dallo scetticismo dei superiori ed è riuscita nell’impresa storica di trovare l’ago che pareva svanito nel nulla all’interno di uno dei pagliai più fitti, complessi e lontani dagli uffici di Washington che si potessero immaginare.
Al di là del successo nel raccontare una storia nota con una tensione che non dà tregua, e oltre una regia di massima precisione, come un’arma intelligente guidata però da una mano umana scaldata dalla passione, c’è una considerazione banale nella sua evidenza che fa di Zero Dark Thirty un film raro e imperdibile: tanto nella ricostruzione quasi documentaristica dei metodi di lavoro dell’Intelligence, delle dinamiche maschili al suo interno, della solitudine al femminile, dell’impegno visivo, strategico e linguistico che ne sono parte integrante e che occupano per intero la prima parte del film, quanto nella grande sequenza dell’azione e nella difficile chiusura, non c’è nulla che manchi al film né nulla che sia di troppo. Non è una questione di realismo, ma una misura tutta interna all’opera, ottenuta con gli strumenti della scrittura e della messa in scena e i tempi del montaggio, che lo rende magnificamente esauriente e mai esondante.
Non si dia dunque troppo credito a chi si lascia scandalizzare dalla sequenza della tortura in apertura, perché vorrebbe dire guardare il dito là dove la Bigelow indica la luna (tanto più che la realtà delle cose, in questi casi, è plausibilmente più cruenta). Eppure la sequenza ha la sua importanza, perché posiziona il personaggio di Jessica Chastain in un punto cruciale. La Chastain è il film, proprio in virtù del suo collocamento su un fronte duro, inscalfibile, totalmente dentro il proprio lavoro (come la regista dentro il suo) ma anche profondamente femminile, efficace là dove usa altre modalità per la caccia all’uomo, che non sono la forza bruta né l’intimidazione. Sta tutto lì, nel portarci a credere al cento per cento che dietro quella piccola donna dalla carnagione chiara e dal fisico inesistente c’è un killer che arriverà al bersaglio che nessun altro ha saputo avvicinare, il successo di Kathrin Bigelow e del suo cinema solo apparentemente “maschile”.
Ciò non toglie che la regista riservi le uniche scene di palpabile umanità alla comunione maschile dei soldati prima dell’attacco, nelle bellissime sequenze dei giochi al campo o del silenzio tragicamente poetico in elicottero, ma il punto non cambia, perché Zero Dark Thirty non è una missione di pace, bensì la storia di una (magnifica) ossessione.
Che Maya – personaggio solo vagamente ispirato alla realtà ma più che altro creato ad hoc – sia il film, e non solo la sua protagonista, lo testimonia anche la sua trasformazione fisica nella scena in cui indossa il chador sopra le All Star, che ad un certo punto sposta lo scopo dell’impresa dall’esterno verso l’interno del personaggio. Non è più, allora, la sicurezza della terra madre, né lo sventare nuovi devastanti attacchi, la priorità assoluta che la muove, bensì la fedeltà cieca a un obiettivo folle, come nella miglior letteratura cinematografica. Perché trovare Osama, per Maya, vuol dire prima di tutto trovare se stessa.
Marianna Cappi (www.mymovie.it)
Qualcosa nell’aria di Olivier Assayas (dvd e b-ray )
Parigi, primi anni Settanta. Gilles è un liceale che, come molti suoi coetanei, sperimenta la contraddizione tra l’impegno politico nei collettivi e la volontà di trovare un percorso individuale nella vita e nell’arte. Quando la ragazza che ama, Laure, lo lascia per seguire una strada più estrema e confusa, Gilles va in Italia con alcuni amici e un nuovo amore, Christine, per sfuggire alle indagini sul ferimento grave di un vigilante. Iscritto all’accademia di Belle Arti, in lui si fa sempre più strada l’idea di voler fare cinema.
La sua potrebbe non essere la via del cinema politico in senso stretto, che porta la documentazione dei movimenti di liberazione del Laos in giro per dibattiti ottusi e senza fine, né quella del cinema filoamericano che estremizza invece la fiction e non appartiene al tempo che vive e spesso nemmeno al pianeta Terra, ma una terza via: quella intrapresa dallo stesso Assayas.
Nonostante il ricordo vada in primo luogo all’Eau froide, come termine di paragone più prossimo, dal punto di vista narrativo è però evidente che è l’esperienza recente di Carlos, vale a dire di una materia storica e biografica, ad aver influenzato il modo di procedere del regista anche qui, dove non ha paura di mettere in sequenza una grande quantità di materiale e di evocare una mitologia famigliare autobiografica.
La malinconia che si respira nel film è legata alla vivacità culturale del periodo, non alla tristezza politica che lo permeava, e non è una nostalgia eccessiva. Capace come nessun altro di ricostruire un quotidiano passato come fosse qui ed ora, il cinema di Assayas è il cinema del “sempre per la prima volta” e parla chiaramente allo spettatore di oggi, non dal palchetto di legno di un comizio, bensì con il pudore con cui si passa ad un amico un libro o un film che si è amato e che si vuol condividere (in questo senso lo scambio con Un amore di gioventù di Mia Hansen-Love è innegabile e ricercato, al di là della presenza comune di Lola Creton).
“Non badate alla forma, so che è d’altri tempi: mi direte voi cosa evoca in termini di attualità”, è più o meno la prima frase del film, affidata al professore di liceo, e non potrebbe esserci esergo più esplicito per un film che parla di “giovani preoccupati per il loro futuro” e di una base sociale che non può più pensare di “andare avanti così”. Tuttavia Something in the Air non è una bandiera, Assayas non chiama all’appello. Racconta di qualcosa che è dietro le spalle, le cui contraddizioni, però, sono quelle che lo hanno fatto, come uomo e come cineasta. Quale miglior strumento del cinema, dunque, per questa “riflessione”?
Marianna Cappi (www.mymovies.it)
Sigur Ros – Kveikur ( cd – 2lp )
Inaspettato. Con “Kveikur” (“stoppino”), a un anno esatto da “Valtari“, i Sigur Rós lasciano i loro fan di stucco, e tutto si fa forse più chiaro. Da un lato l’abbandono dello storico tastierista Kjartan, dall’altra una sorta di speranza che si proietta verso nuovo inizio. Quasi fosse una storia che si ripete, il trio – che si fa collettivo tanto in studio quanto nella dimensione live – rinfocola una fiamma che pareva destinata a esaurirsi, pubblicando un album che profuma di urgenza, forse come solo “()“. Ma se nel capolavoro di ormai undici anni fa agli stati di tensione della seconda metà dell’album si contrapponeva un immobilismo impercettibile delle prime quattro tracce, ecco che invece “Kveikur” si pone sin da “Brennestein” come l’album “rock” degli islandesi. Anche se, a ben sentire, ogni etichetta coglierebbe solo parzialmente la svolta dei Sigur Rós.
Ecco che “Kveikur”, nei suoi mille rivoli e declinazioni, svolge una storia quadrata, definita. A chi, con le solite banalizzazioni del caso, definì musica per folletti tutto ciò che proveniva e proviene dall’Islanda, ecco che i Sigur Ros rispondono idealmente. E lo fanno cacciando fuori tutta la grinta che sia in “Med Sud…” (il loro album freak?) che appunto nel loro disco ambient “Valtari”, era rimasta soffocata. Il glucosio, lo zucchero, mai come ora viene dosato secondo nuove modalità. Sia chiaro: la loro cifra stilistica – inimitabile – non viene qui meno, ma emerge tutto quel che nei Sigur Rós non avevamo mai visto sviluppato e sintetizzato con questo effetto.
Struttura e colonne portanti diventano le chitarre, i riverberi, i climax, muri di suono trascinanti, mai banali. E l’elettronica, l’elemento ritmico, la batteria che calpesta vigorosa ogni cosa gli si pari d’innanzi. L’iniziale “Brennestein” traccia le coordinate di questo nuovo corso. Ci riconosci la cattiveria di una “Untitled #8”, salvo virare il tutto su un versante marcatamente elettronico (cosa mai nemmeno osata prima dagli islandesi). Tutta quella dolcezza, loro marchio di fabbrica, viene qui rimodulata secondo coordinate completamente nuove e, cosa non da poco, senza risultare stucchevoli. “Isjaki”, per dire, fa rivivere gli scenari di “Hoppipolla”, ma con quel quid che la rende perla purissima e spontanea.
Nei vocalizzi di Jonsi in splendida forma e negli impeti solo accennati di “Yfirbord”, nei carillon onnipresenti in “Stormur” che s’accende in un dolce finale strumentale, nella malinconia dilagante di “Hrafntinna”, si riconoscono tutte le peculiarità di questo nuovo corso. E, quando accelerano, riescono a far male. “Rafstaumur”, nel suo climax aggressivo, s’accende impetuosa (notate forse analogie con “Sweet Love For Planet Earth” dei Fuck Buttons, nella seconda metà?). Nell’inno della title track “Kveikur” si rincorrono gli elevamenti al cubo di quella ferocia compositiva. Fuoco che arde, spruzzi dai geyser che s’elevano verso il cielo, in un gioco in cui la tangente post-rock si tocca quasi col doom. Gli echi lontani e il piano di “Var” spengono quella fiamma inferocita, la sedano, come la quiete dopo la tempesta.
Incontro tra la purezza pop di “Takk” e “()“, “Kveikur” è la nuova via dei Sigur Rós verso una forma di post-rock elettrico che incontra il pop. Non tradiscono i fan, ma si proiettano in una dimensione, se possibile, ancor più moderna e universale. Non si legga in tutto questo una volontà di aprirsi, quanto un mettersi in discussione. Nonostante in certi frangenti si abbia la sensazione che procedano col pilota automatico, la prospettiva del rischio ripaga anche quei pochi momenti di stanca. Ritornano a loro modo giovani e punk, recuperando una freschezza d’intenti che pareva essersi un po’ perduta. Giocano l’asso che nessuno s’aspettava avessero, vincono la partita nella maniera meno scontata e più difficile. Sorprendendo.
Alberto Asquini (www.ondarock.it)
Tirannosauro di Paddy Considine ( dvd )
Joseph è un uomo solo divorato da una rabbia che lo spinge ad agire anche contro chi ama. Un giorno, reduce da un ennesimo scontro, cerca asilo nel negozio di Hannah, una devota cristiana che non può fare altro che dirgli che pregherà per lui. Joseph è disperatamente ateo ma le parole di Hannah lo toccano e lo spingono a tornare a cercarla. Pur non riuscendo a trattenersi dall’offenderla capisce che anche lei nasconde un dolore profondo.
Paddy Considine, attore britannico che ha lavorato con registi del calibro di Jim Sheridan e Ron Howard affronta la sua prima regia di un lungometraggio riuscendo con grande sensibilità ad inserirsi in quel filone di cinema inglese che affronta la brutalità della vita con forti accenti di verità. Non si fa tentare dalle facili sirene che potrebbero indurlo a cercare happy end improbabili o soluzioni edulcorate. Porta sullo schermo tre solitudini originate da cause differenti ma unite da una sorta di ineluttabilità che va al di là del contesto sociale. Joseph, Hannah e suo marito James provengono da classi socioculturali profondamente diverse ma tutti e tre si ritrovano a combattere contro il demone della violenza. Considine costruisce attorno ai suoi protagonisti (le interpretazioni di Mullan, Colman e Marsan sono eccellenti e per gli ultimi due lontane dai ruoli in cui il pubblico li ha visti agire finora) un film in cui la tensione è continua. Le poche pause di apparente quiete preludono sempre a un’esplosione di rabbia. Sia essa quella esibita del patrigno del ragazzino che abita di fronte a Joseph oppure quelle a malapena represse di chi sopravvive a se stesso, in Tyrannosaur (titolo che riceve una spiegazione nell’ultima parte del film) la serenità del vivere è negata. Lo è nella barba malfatta e nello sguardo annebbiato dall’alcol di Joseph così come nella sublimazione nella fede da parte di Hannah o nella brutalità di James. Questo però non significa che Considine neghi una possibilità di riscatto. Ha solo realisticamente la consapevolezza di quanto sia complesso e difficile combattere una guerra quando il nemico si presenta ogni giorno guardandosi allo specchio e ne trae le amare conseguenze.
Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)
Il sospetto di Thomas Vinterberg ( dvd )
Lucas ha un divorzio alle spalle e una nuova vita davanti che vorrebbe condividere con il figlio Marcus, il cane Funny e una nuova compagna. Mite e riservato, Lucas lavora in un asilo, dove è stimato dai colleghi e adorato dai bambini, soprattutto da Klara, figlia del suo migliore amico. Klara, bimba dalla fervida immaginazione, è affascinata da Lucas a cui regala un bacio e un cuore di chiodini. Rifiutato con dolcezza e determinazione, Lucas invita la bambina a farne dono a un compagno. Klara non gradisce e racconta alla preside di aver subito le attenzioni sessuali dell’insegnante. La bugia di Klara scatenerà la ‘caccia’ al mostro, investendo rovinosamente la vita e gli affetti di Lucas. Disperato ma deciso a reagire, Lucas affronterà a testa alta la comunità nell’attesa di provare la sua innocenza.
La legge è chiara, un uomo non può essere considerato colpevole fino a quando sussiste solo l’ipotesi di reato. Diversamente, ai tribunali del popolo piace condannare, processare e cuocere sulla griglia mediatica il presunto colpevole. È quello che accade a Lucas, padre e insegnante, accusato da un’intera comunità di aver abusato dei propri bambini. Tema chiave della filmografia hitchcockiana, l’innocenza è al centro dell’ultimo film di Thomas Vinterberg, attore, regista e autore del primo film dogmatico. E proprio a Festen, Il sospetto sembra guardare, procedendo in direzione ostinata ma contraria. L’ostinazione è la riunione di famiglia, se pure allargata alla comunità, un padre screditato, la critica antiborghese, lo sgretolarsi delle loro certezze e della propria credibilità; lo scarto è il punto di vista che si sposta dalle vittime incriminanti ai colpevoli incriminati. Partendo dal presupposto che i bambini dicano sempre la verità e che gli adulti gli credano sempre, Lucas diventa il capro espiatorio, il cervo sacrificabile in una battuta di caccia tante volte condivisa con gli amici, quelli che adesso lo prendono a pugni e a male parole, quelli che lo vogliono fuori dal supermercato e gli ammazzano il cane, quelli che tirano pietre e parole pesanti come macigni.
Il Lucas ponderato e provato di Mads Mikkelsen è il ‘capro’ ideale delle cerimonie ebraiche, allontanato nel bosco e obbligato a portare su di sé i peccati del mondo, le ombre di una comunità, i comportamenti che i suoi componenti non accettano di sé e da cui si sentono minacciati. Con camera, mano e sguardo più fermi, il regista danese produce un transfert collettivo e irrazionale che procede verso l’eliminazione affettiva e minaccia quella effettiva con un colpo messo a segno mancando il segno. Per avvertire, per ridurre il senso di ansia causato dal perseguimento della sopravvivenza di un’umanità carnale, aggressiva e precipitata nel panico.
Ma c’è di più. Vinterberg, in una sequenza ‘corale’ sorprendente, contempla dopo l’accanimento il senso di colpa che colpisce chi ha ‘divorato’ Lucas e adesso lo ristora dentro una notte di Natale. Mikkelsen, il villain che lacrimava sangue al tavolo da gioco di Casino Royale, investe magnificamente la carica espiatoria, spostando con il suo autore il cinema un po’ più in là.
Marzia Gandolfi (www.mymovies.it)
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