Archive for giugno, 2011
Cartoline da Cannes 2011 – The Tree of life di Terence Malick
“L’arte è il grido d’allarme di coloro che vivono in sé il destino dell’umanità”
Arnold Schönberg
L’arte si nutre da sempre di un apparente paradosso. Più concentra tutta la sua potenza espressiva attorno alla sfibrata condizione di fragile transitorietà dell’uomo, più il suo disegno si fa ambizioso e la rappresentazione tende alla magniloquenza, allo sbandamento declamatorio, alla costruzione allegorica.
In un’epoca di piccole apocalissi quotidiane, amplificate dalla velocità e dalla pervasività del linguaggio visivo, il cinema non poteva non registrare il tentativo di dare forma al diffuso senso di angosciosa precarietà che attraversa la società occidentale in questo scorcio di nuovo millennio, con progetti per l’appunto smisuratamente ambiziosi, inevitabilmente destinati a dividere (in modo talvolta manicheo) pubblico e critica.
L’ultimo festival di Cannes sarà probabilmente ricordato proprio per la presenza di diversi lungometraggi che, perfettamente allineati allo Zeitgeist dominante, hanno senza remore scelto la strada più difficile: affrontare apertamente, senza trincerarsi dietro un logoro minimalismo, il dramma dell’uomo di fronte all’insondabile destino del mondo. Almeno due di essi, certamente i più attesi (“The Tree of Life” di Terence Malick e “Melancholia” di Lars Von Trier), lo hanno fatto attraverso differenti scelte stilistiche, ma utilizzando strutture piuttosto simili. Gli autori di entrambe le opere, infatti, forse nascostamente attratti in ciò dall’idea wagneriana di “opera totale”, hanno dato alle loro pellicole un andamento “sinfonico”, articolato su più “movimenti”, alternando momenti di vera e propria narrazione a squarci più meditativi, quando non allegorici.
L’ “itinerario delle mente verso Dio” disegnato da Malick ha la potenza e la grandezza del grande affresco e al contempo la forza ipnotica e il fascino della narrazione che si inabissa nello stream of consciousness. Quando il sipario si apre sul primo movimento l’autore già scopre le carte: sullo schermo compare una citazione di un passaggio della Bibbia (Giobbe 38, 4-7) nel quale Dio confrontandosi con Giobbe, lo mette di fronte all’incapacità umana di comprendere l’origine e il fine ultimo delle cose: “Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza. Chi ha stabilito le sue dimensioni, se lo sai, o chi tracciò su di essa la corda per misurarla? Dove sono fissate le sue fondamenta, o chi pose la sua pietra angolare, quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme e tutti i figli di Dio mandavano grida di gioia?”. L’eco di queste parole si diffonderà sull’intero film, trovando una prima manifestazione nel doloroso interrogarsi sulla ragione della presenza del male, da parte di una madre trafitta dalla perdita di un figlio. Questa perdita, questa morte è un lento movimento di macchina che segue i passi di una donna all’interno di una casa dalle pareti di vetro, il suo avvicinarsi alla porta d’ingresso, il suo ricevere un telegramma dalle mani di un postino, la lettura di quelle poche parole, una telefonata. Poi un flash improvviso verso un’altra casa (ma quanto simile alla prima), un altro tempo, un uomo con il volto di Sean Penn. Nessun dialogo udibile e lo stacco netto verso la notte dei tempi. Comincia a quel punto a dispiegarsi quel viaggio che, andrebbe concesso almeno questo ai più feroci detrattori dell’opera malickiana, con un eccesso di lirismo e al contempo di didascalismo documentarisco, il regista fa compiere allo spettatore, tra ribollimenti galattici e primi segnali di vita sulla Terra, con l’intento di risalire alla fonte stessa dell’”unde malum?”.
Un lungo preludio, questo viaggio, al nucleo centrale dell’opera, quel secondo movimento che si apre con una voce fuoricampo: “Quando ti sei affacciato alla mia anima?”. Si tratta della voce di un ragazzo, e da subito è evidente il legame con quelle prime sequenze poi abbandonate, con quella madre disperata, con quella casa annegata nella luce. Inizia qui la parte migliore, più “malickiana” di “The Tree of Life”: il racconto di un recupero memoriale di un’infanzia trascorsa nella provincia americana durante la sua Età dell’Oro, quegli anni Cinquanta dello scorso secolo segnati dall’apparentemente inarrestabile cammino verso il benessere e il progresso. Il racconto di una famiglia con un padre dispotico (Brad Pitt) e mosso da smisurate ambizioni di successo per sé e i suoi tre figli. Una madre giovane e fragile (Jessica Chastain, interpretazione superlativa la sua). Un figlio che sperimenta il sottile piacere del male, il contrasto irrisolvibile tra la natura e la grazia.
Un (non)racconto che si sviluppa in modo frammentario, ellittico, che procede per quadri, che si regge sull’intelaiatura di monologhi fuoricampo che si intrecciano (sul riuscito modello de “La sottile linea rossa”). Una mitopoiesi del quotidiano girata con una maestria tecnica che raggiunge livelli difficilmente eguagliabili, con movimenti inconsueti della mdp e strane angolazioni, capaci di suscitare senso di vertigine e spaesamento.
Per un artista “laico” (nonché per lo spettatore meno incline alla “grandiosità”) la rappresentazione di questo “teatro della memoria” avrebbe forse potuto rappresentare l’esito finale di un processo di costruzione identitaria, compiuto attraverso una rielaborazione del vissuto del protagonista. Per Malick, invece, anche questo secondo movimento non è che un preludio a un livello più profondo di analisi, quello messo in scena nel terzo (e conclusivo) movimento. In esso quell’uomo cui Sean Penn presta il volto, brevemente introdotto nel prologo del film, assume una nuova centralità: è lui a incarnare il protagonista colto in un momento della sua vita successivo a quello dell’infanzia e dell’adolescenza. Sarà lui a esplorare il confine tra il mondo della vita e l’infinito ultraterreno, varcando la soglia che li separa e giungendo, appare convinzione di Malick, a cogliere infine l’essenza delle cose in quella che sembrerebbe una riconciliazione con la verità rivelata.
Peccato che, a parere di chi scrive, questo finale dell’opera anneghi in un profluvio insistito di simboli che finisce per determinare una sensazione di poca coerenza con quel magnifico quadro impressionistico e instabile rappresentato dal secondo movimento. Si badi che il verbo “annegare” non è qui utilizzato casualmente. Una delle ultime immagini del film (l’ultima in assoluto, un ponte, il Golden Gate) è quella di una maschera che si inabissa nelle profondità oceaniche. Una sequenza paradigmatica di come il rimando simbolico sia spesso, in questa epilogo, troppo smaccatamente didascalico: cosa c’è di più limpido dell’abbandono della maschera per simboleggiare il “disvelamento di una verità”, una verità che per l’heideggeriano Malick non può che essere intesa come “non nascondimento” (a-letheia)?
L’ambizioso disegno di dare compiuta forma espressiva all’attaccamento dell’uomo alle domande ultime rimane (fortunatamente?) una chimerica illusione. Anche per Malick.
Paolo Ligutti
Cartoline da Cannes 2011 – Code Blue di Urszula Antoniak
Non avevo mai pensato alla solitudine come a una logorante malattia. Mai avevo immaginato si potesse creare una similitudine così forte, a dire il vero già curiosamente descritta dal suono delle due parole pensate oltremanica.
Urszula Antoniak, nuova regista polacca diplomata in cinematografia sia in patria che in Olanda, con alle spalle cinque premi al Festival di Locarno 2009 per il suo primo lungometraggio, NOTHING PERSONAL, ha scelto, attraverso una forte consapevolezza del mezzo cinematografico, di raccontare la mente abbandonata alla sua parte più debole.
La camera scivola lungo i corridoi artificiali di un ospedale, segue rumori notturni che conducono agli ultimi respiri dei malati. Marian (Bien de Moor) è un’infermiera di mezz’età, corporatura ostentamente esile e modi aggraziati, con uno sguardo scuro e pertanto affascinante. Si muove tra inermi ombre febbrili, che scompariranno ancora prima che arrivi l’alba.
C’è un buio rigoroso, solo a volte illuminato da fredde lampade alogene, che ricorre per tutto il film. Il chiarore del giorno, quando c’è, viene nascosto da uno spesso tessuto nero, capace di sorvegliare il riposo di Marian, dai tratti funerei, dopo il turno di notte.
La luce, magistralmente accudita dalla fotografia di Jasper Wolf, è una realtà ostile, fatta di sensazioni immaginate ma lontane, spiata attraverso una finestra, cercata in un autobus nel leggero sfiorarsi di una folla distratta.
I rapporti umani non sono più possibili, degenerano, sono malati, come gli oggetti appartenuti per un qualche tempo ai pazienti ora defunti, istanti già finiti che hanno la forma di un pettine o di un piccolo specchio, che Marian conserva con cura, maniacale, in un mobile della cucina, spoglia.
I contrasti tra la vita e la morte, tra la confusione delle parole e il ridondante silenzio di una stanza vuota, non sono più così netti, si affievoliscono, e i colori, inevitabilmente, si mescolano.
Presentato alla 64° edizione del Festival di Cannes, CODE BLUE ha concorso nella sezione Quinzaine des Réalisateurs che,
nonostante abbia i propri scheletri nell’armadio (impossibile non citare l’inspiegabile Après le sud, sporcizia francese probabilmente finita per sbaglio ai lati della Croisette, ma senz’altro già cult), da sempre raccoglie le storie di quelli che poi sono diventati i Grandi.
Staremo a vedere dove arriverà l’Antoniak. Quasi sicuramente, tenendo conto delle usuali scelte di distribuzione, non in Italia.
Simona Brambilla
Americana di Blue Bottazzi
Il Cigno Nero di Darren Aronofsky ( dvd e b-ray )
Il Cigno Nero (Black Swan) potrebbe essere descritto come la versione lisergica de La pianista, ambientato nel mondo della danza classica, una miscela virata al dark di un paradigma classico di nevrosi che non segue le orme gelide di Michael Haneke, ma quelle del perturbante e dell’inconscio.
Il suo regista Darren Aronofsky (The Wrestler, Requiem for a Dream) ha il pregio dell’originalità e del solipsismo, di inseguire progetti che ogni volta appaiono incuranti di critiche ed elogi, nonché della ricerca di un percorso personale facilmente etichettabile o di una cifra stilistica riconoscibile.
Ogni suo film è una sorpresa, anche se nonostante la sua rarefatta produzione comincia ad affacciarsi un tema ricorrente, quello della ricerca (psicopatologica) della perfezione, affrontato da prospettive inattese.
La trama è un gioco a carte scoperte, versione moderna della storia de Il lago dei cigni, con qualche rimembranza di Eva contro Eva, costruita in modo preciso e circolare, lasciando poco margine per colpi di scena. Tuttavia il regista sceglie di disorientarci e imposta la pellicola come un sogno lucido, lasciando irrompere l’allucinazione nella realtà.
La commistione visiva angosciante che viene creata, la dialettica isterica dei protagonisti (la madre iperprotettiva, il luciferino coreografo che seduce, la disinibita compagna che libera pulsioni erotiche, lo specchio oscuro rappresentato da Winona Ryder in cui si riflette il rischio del proprio fallimento) e una sessualità esplicitamente rappresentata (molestie, lesbismo), trascinano lo spettatore in una spirale di tensione.
Ne Il Cigno Nero il climax di ansia cresce gradualmente fino al confronto finale, quando si resta appesi a una sensazione di tragedia imminente, a un filo teso tra il successo del cigno bianco e il prevalere del cigno nero, dopo sequenze di autolesionismo, violenza e mutazioni fisiche atte ad aumentare confusione e disagio, simboliche e leggibili, quanto di sicura efficacia e sgradevolezza.
Black Swan è un percorso mentale, meno forzato ed ellittico di esempi analoghi, ed è in questo nucleo di costruzione razionale, all’interno di una cornice di follia, che risiede l’elemento (ironicamente) tragico che rende il film tanto prevedibile da una parte, quanto collegabile a grandiosi esempi di dramma e cinismo quali il già citato Eva contro Eva o Viale del tramonto.
Una nota aggiuntiva è doverosa per il cast, perfetto nei classici ruoli di contorno. Barbara Hershey, sempre a un passo dall’esplodere in grida. Vincent Cassel (Ocean’s Thirteen, Il patto dei lupi, Satan), quasi insuperabile nella sua torva sensualità. Mila Kunis (Codice: Genesi,American Psycho 2), premiata al Festival di Venezia. La già citata autodistruttiva Winona Ryder. Sopra tutti loro svetta la complessa e camaleontica interpretazione di Natalie Portman (V per Vendetta), innocente, quanto mostruosa.
Lenny Nero (www.latelanera.com)
Biutiful di Alejandro Gonzales Inarritu ( dvd e b-ray )
Uxbal ha due figli, Ana e Mateo che ama profondamente e una moglie, Marambra, con la quale c’è un rapporto conflittuale che li spinge a separazioni e a tentativi di riappacificamento. Uxbal vive di manodopera clandestina che sopravvive ammassata in tuguri (i cinesi) o cerca di far crescere il proprio figlio in condizioni comunque estremamente precarie come l’africana Ige. Uxbal si trova a confronto con la morte anche di minorenni. Uxbal attende la morte, la sua. Uxbal ha un cancro che gli lascia poco da vivere.
Per Alejandro Gonzales Inarritu è finalmente arrivato il film della maturità. Liberatosi dell’autoimposta necessità di far prevalere gli incastri di montaggio sulla qualità della sceneggiatura si autorizza in Biutiful a portare sullo schermo una storia tanto lineare quanto complessa e profonda. È come se quell’anello che Uxbal dona all’inizio del film (si scoprirà molto più tardi a chi) affermandone l’autenticità a dispetto di quello che ne ha detto la moglie, fosse un patto con lo spettatore. Non si cercherà più di mescolare le carte, di lavorare sulla dimensione degli scarti temporali per occultare eventuali vuoti di scrittura. Grazie al corpo/cinema di Xavier Bardem Inarritu si mette a nudo e ci costringe a ‘guardare’ il dolore, a sentirlo penetrare in noi, a condividerlo. Scegliendo però sin dall’inizio una delle città ‘da cartolina’ per eccellenza: Barcellona.
Se Woody Allen, spinto da esigenze di budget e con una punta di autoironia, ci aveva portato a spasso per i luoghi cari al turismo di massa Innaritu fa l’opposto. La Barcellona di Gaudì sta racchiusa in un lontano panorama. La città di cui percorriamo strade e vicoli è un organismo divorato, come quello del protagonista, da un cancro sociale che ha prodotto metastasi ovunque. Non c’è nulla di ‘biutiful’ se non forse, la speranza che cova nello sguardo di Mateo e in quella sua attesa di un viaggio premio sui Pirenei.
Pochi film hanno saputo far ‘sentire’ in modo così partecipe e lucido il magma ribollente di un animo in cui ai molteplici sensi di colpa sociale si mescola inestricabilmente la mancanza di una figura paterna (che si spera di ritrovare nell’aldilà) e, al contempo, il sentirsi padre fino all’estremo, fino all’ultimo. Fino a oltre la morte.
Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)
Bon Iver – Bon Iver ( cd – lp )
Da che cosa si intuisce l’affacciarsi di una nuova stagione? Prima ancora del germoglio, c’è qualcosa che si mette in moto nel silenzio, come una linfa che torna a scorrere lentamente. Spalancare la porta sul mondo, rimettere la vita in azione. L’inverno solitario di Emma è lontano, la primavera si colora di nuovi volti.
L’esilio tra i boschi si è tramutato in blockbuster esistenziale, il diario segreto è diventato materia da blog. Quattro anni fa, For Emma, Forever Ago non era che una raccolta di canzoni provenienti da un capanno del Wisconsin. Oggi, “Skinny Love” scala le classifiche inglesi, affidata alla voce di una ragazzina di quattordici anni. Ma Justin Vernon non è più lì. Ha ripreso il cammino, ha vagato attraverso luoghi, esperienze, incontri. È andato incontro al risveglio della sua primavera. E ora riparte soltanto dal nome che l’ha accompagnato attraverso il disgelo: “Bon Iver”.
Impossibile misurarsi con il fantasma di “For Emma, Forever Ago”: mitizzato fino a farne sfumare i reali contorni, legato inevitabilmente all’unicum di un momento irripetibile. La sua forza era quella di avere una storia da raccontare, e di raccontarla senza difese. In “Bon Iver” (o, come preferisce Vernon, “Bon Iver, Bon Iver”), le coordinate si spostano agli antipodi: suggestioni atmosferiche, composizioni corali, ambientazioni stratificate. Canzoni dedicate a luoghi, ma che non parlano di un viaggio. Perché un viaggio è definito dalla meta, mentre le dieci tappe di “Bon Iver” esplorano lo spazio fuori e dentro di sé alla ricerca della direzione da prendere. Una direzione che continua a sfuggire: “Mi sta diventando sempre meno chiaro dove sia il mio posto”, confessa Vernon. “Ma in un certo senso sento questo disco più mio di qualunque altra cosa abbia fatto”.
Da Kanye West ai Volcano Choir, dai Gayngs a Twilight: collaborazioni prima impensabili, avventure in nuovi territori, influenze che diffondono un vago senso di disorientamento su uno dei ritorni più attesi dell’anno. È l’approccio stesso a mutare radicalmente, come già lasciavano percepire alcuni frangenti dell’Ep Blood Bank: “Da qualche parte lungo la strada ho dimenticato come scrivere canzoni. Non potevo più farlo con una chitarra. Semplicemente non ci riuscivo”. I dieci brani di “Bon Iver” sono gli unici scritti da Vernon negli ultimi anni. Un lento processo verso l’apprendimento di un nuovo linguaggio, in cui la condivisione è divenuta una necessità, prima ancora che una scelta: “Ho fatto entrare un sacco di gente per cambiare la mia voce – non la voce con cui canto, ma il mio ruolo come autore all’interno di questo gruppo, di questo progetto”. Il sax di Colin Stetson, la pedal steel di Greg Leisz, le orchestrazioni di Rob Moose… Preziosi tasselli di un mosaico a cui sembra mancare però la trama di fondo.
Tutto gravita ancora intorno al Wisconsin, dove Vernon ha creato il proprio studio di registrazione in una ex-clinica veterinaria, ad appena pochi chilometri dalla casa dove è cresciuto e dal locale dove i suoi genitori si sono incontrati per la prima volta. Tutto si incentra ancora sul suo diafano falsetto, inconfondibile trait d’union con i paesaggi innevati di “For Emma, Forever Ago”. Il rincorrersi di un fraseggio e l’eco di un coro di ombre conducono “Perth” verso le lande oniriche dei Sigur Rós, tra accenti marziali e aperture di fiati: “una canzone heavy metal con un suono da Guerra Civile”, la definisce iperbolicamente Vernon. Insieme alla levità folk di “Towers” e all’ordito di “Holocene”, è l’episodio che lascia trapelare più intimamente la discendenza dal disco d’esordio. Ma la purezza espressiva delle canzoni in quanto tali rimane una prerogativa di “For Emma, Forever Ago”.
“Bon Iver”, piuttosto, è un intreccio evanescente di strade: il tappeto di “Minnesota, WI” azzarda il connubio con Peter Gabriel, i riverberi di tastiere di “Hinnom, TX” vanno in cerca di un pop etereo alla Talk Talk, “Calgary” rimane sospesa in una bolla di sapone per poi rifrangersi in schegge di ritmi e fenditure asprigne. E l’epilogo di “Beth/Rest” ambisce a sdoganare souvenir soft-rock anni Ottanta, con il suo gioco di piano elettrico, sax e scampoli di assoli.
Tra le reminescenze d’infanzia di “Michicant” e la mistica amorosa di “Towers”, i nuovi brani firmati Bon Iver prediligono i contorni indefiniti. “Per me era importante lasciare da parte l’aspetto dello storytelling“, sottolinea Vernon. Canzoni “non specifiche”, le chiama, nelle quali a prevalere è il suono dei versi che si affidano al librarsi incorporeo della sua voce.
“This is not a place”: come in un paradosso di Magritte, la dichiarazione di “Perth” è l’unica vera certezza. “Bon Iver” è un itinerario di non-luoghi, una traversata senza prendere il largo. La mappa di una terra di mezzo dove le aspirazioni non arrivano a tradursi in forma compiuta.
Gabriele Benzing
Danger Mouse & Daniele Luppi – Rome ( cd – lp )
All’uomo della strada piace sicuramente “Rome” di Danger Mouse e Daniele Luppi. Ascoltandolo come farebbe lui – e lo conosciamo, lo conosciamo bene – c’è quel basso rutilante che lo riporta ai tempi belli, agli audaci ascolti che ora gli sfuggono ma che lega a dei ricordi che è sicuro di avere. Ma è tutto così indefinito, latente, fuori fuoco. Eppure sente che “Rome” un poco gli appartiene, perché quel suo suonare vecchio lo riporta giovane e mentre la mente si apre, si chiude su se stessa implodendo in un caldo sogno analogico. L’uomo della strada sta ascoltando un album del 2011, che suona familiare perché ispirato da quegli stessi ricordi di cui non riesce a venire a capo. Nel 2006, Brian Burton (aka Danger Mouse) incontra Daniele Luppi e da stima reciproca nasce l’idea di un album semplicemente ispirato alla musica di Ennio Morricone e all’iconografia che il Maestro, con la sua opera, ha contribuito a costruire. Di Danger Mouse e Luppi si è detto e scritto parecchio ultimamente. Uno è un produttore affermato in ambito hip-pop/rock (Beck, Black Keys e prossimamente gli U2, fra gli altri), balzato agli onori della popolarità grazie soprattutto alla collaborazione coi Gorillaz e allo splendido “The Grey Album” realizzato col rapper Jay Z su musiche dei Beatles. L’altro, forse appena meno noto, è autore neanche troppo emergente di colonne sonore, produttore di album come il pattoniano “Mondo Cane” e arrangiatore dell’ottimo “St. Elsewhere” degli Gnarls Barkley, ovvero Mr. Burton & Cee Lo Green. Se le premesse lasciavano presagire l’inizio di una collaborazione qualitativamente fruttuosa, l’evoluzione della stessa prendeva una piega inaspettata quando, non paghi di ripercorrere le estetiche di un mondo in celluloide che fu, si misero in testa di coinvolgere chi, di quell’ambiente, è stato fautore e cantore. La partecipazione di musicisti quali Alessandro Alessandroni (classe 1925 e ombra di Morricone), infatti, accresce la credibilità del progetto – soprattutto quando a comprovarla è l’ormai mitico coro dei Cantori Moderni da lui messo su per opere quali “C’era una volta nel West” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” o Gilda Buttà (arpa) – e due oramai mitiche figure della musica leggera italiana come Dario Rosciglione e Luciano Ciccaglioni. Ovviamente l’uomo della strada nota fin da subito la partecipazione di Jack White e Norah Jones ma il punto, qui, è un altro. È la bontà di un’opera che non si propone di imitare le atmosfere dello spaghetti western con fare parodico, non cerca mezzi antiquati per suonare retro, polveroso o, come ormai sa dire l’uomo della strada, vintage. Tutt’altro: la grandezza e la gradevolezza di un album simile è proprio nel suo suonare moderno con mezzi antiquati, di riscrivere la storia con in mente una visione moderna della stessa e non una mera celebrazione dei bei tempi che furono. Ecco allora che la musica di “Rome” assume connotati alla Zero 7, ambientazioni lounge e dinamiche pop tra fumi vagamente ambient e smooth jazz. Jack White e Norah Jones, dicevamo, accrescono il valore di un’opera che non è certamente un capolavoro ma che ha in nuce intenti quasi storiografici, che gli attribuiscono un valore a sé, quasi come se la musica che ne risulta fosse il mezzo e non il fine della ricerca. Le voci sono dunque strumentali, mantenendo allo stesso tempo un profilo basso, artisticamente dimesso e lontano dalle derive jazz (Jones) e dagli eccessi blues e garage (White) a cui eravamo preparati. Colonna sonora di un film mai scritto, “Rome” divaga in ambiti propriamente easy listening tenendo un piede ben saldo in una musica comunque cinematografica (ma d’altronde quale album di Danger Mouse non lo è?), ma che ha il pregio di essere fruibile dagli appassionati così come dalle radio con poche pretese.
La bontà dell’opera è appunto questa: poterne scrivere citando, seppur implicitamente, Gershwin, ed essere tra gli ascolti dell’uomo della strada. Perché alla fin fine è lui (e soprattutto Vincenzo Mollica) a decretarne il giusto e meritato successo.
Alex Franquelli (www.ondarock.it)
giugno 18, 2011 at 10:21 am alphavillepc2 Lascia un commento
Tamara Dreewe di Stephen Frears ( dvd )
Tamara Drewe torna alla casa di campagna dove ha trascorso l’infanzia, in seguito alla morte della madre. Ha un nuovo naso, una rubrica su un quotidiano di Londra e un paio di gambe che non passano inosservate. Alle loro pendici cadono presto l’ex fidanzatino Andy, ora tuttofare presso un ameno ritiro per scrittori in cerca di calma e ispirazione, il famoso romanziere Nicholas Hardiment, che gestisce il suddetto posto con l’aiuto della moglie Beth, e la rockstar Ben Sergeant, che per Tam si trattiene in quel luogo ben oltre il tempo previsto per il concerto. A muovere le file tragicomiche del teatrino che da queste premesse si dipana, sono due ragazzine del luogo, Casey e Jody, rese folli dalla noia e dal fanatismo nei confronti del batterista.
A conti fatti, sono almeno una decina d’anni che Stephen Frears non sbaglia un film, pur spaziando tra ispirazioni molto diverse – le playlist dei vinilomani piuttosto che i business erotici di una vecchia dama o i cervi del parco della regina – e senza necessariamente sfiorare il capolavoro, che non pare affar suo. Due i punti fissi: lo schermo è innanzitutto il palcoscenico degli attori e la letteratura è un ottimo soggetto da rileggere attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Ecco dunque Kureishi, Hornby, Doyle, Colette e ora l graphic novel di Posy Simmonds (edita in Italia da Nottetempo), uscita a puntate sul Guardian e liberamente e irriverentemente ispirata a “Via dalla pazza folla” di Thomas Hardy (a sua volta e a suo tempo pubblicazione seriale).
Il materiale non manca: un’eroina al centro di un conflitto di passioni attorno alla quale si colora il ritratto satirico della classe media inglese con velleità artistiche, tra invidia e imitazione, pavonerie e contraddizioni di comodo (la verità è il sale della buona letteratura o il bravo scrittore è un bugiardo nato?)
Usando le tavole originali come un vero e proprio storyboard e i personaggi di carta come modello per la scelta degli attori, Frears e Moira Buffini (alla sceneggiatura) si cimentano con risultati brillanti nell’operazione di aggiungere realismo senza perdere di humor. La quotidianità dell’assurdo e le piccole malignità che assicurano l’umana sopravvivenza, insieme allo smantellamento del mito della genuinità e della pietà rurale, sono i registri azzeccati su cui si muove questa commedia mezza rosa e mezza nera, che ha nel cuore un ricordo inconfessato (e irraggiungibile) di Shakespeare a colazione, nel motore una marcia in più di tutta l’ultima produzione di Woody Allen e un debito innegabile verso un cast in formissima.
Marianna Cappi (www.mymovies.it)
giugno 17, 2011 at 11:09 PM alphavillepc2 Lascia un commento
The Fighter di David O. Russell ( dvd e b-ray )
Rickie e Micky Ward sono due fratelli entrambi pugili. Vivono a Lowell, una cittadina di provincia del Massachusetts in cui Dickie, il maggiore, è divenuto una sorta di leggenda vivente per aver mandato al tappeto Sugar Ray Leonard. Ora però Dickie fuma crack ed è sempre meno lucido ma non vuole smettere di essere l’allenatore del fratello. Il quale è messo sotto pressione anche dall’ambiente familiare. La madre Alice pretende di essere il suo manager, spalleggiata dalla tribù di sorelle del ragazzo. Micky viene mandato allo sbaraglio in un incontro e da lì cresce pian piano il desiderio di affrancarsi da una famiglia davvero troppo pesante da sopportare. L’incontro con la barista Charlene offre un ulteriore impulso a questa separazione. Ma non sarà un percorso facile e, forse, non sarà neanche quello giusto.
Un titolo che potremmo definire perfetto The Fighter perché questo film racconta sì di un pugile ma è soprattutto la cronistoria di un combattimento costante di un uomo contro chi, per un malinteso concetto di amore (fraterno o materno che sia), rischia di soffocarne per sempre la personalità. Micky Ward, classe 1965, è arrivato al titolo mondiale nella categoria dei Welter leggeri nel 2000 ma ciò su cui il film si focalizza è il rapporto con l’ambiente, sia esso familiare che sociale, in una sonnolenta città di provincia.
Non era facile, va detto, tornare a fare un film importante sul pugilato dopo Cinderella Man e non è un caso che il primo candidato a dirigerla sia stato Darren Aronofsky il quale ha rinunciato per mettersi dietro la macchina da presa di (guarda un po’) The Wrestler rimanendo però in qualità di produttore esecutivo. Non era facile ma la scommessa è vinta, anche se con un finale molto “all’americana” come si sarebbe detto nell’Italia degli anni Sessanta.
David O.Russell punta tutto sulla dinamica del rapporto tra fratelli e Christian Bale gli offre, nel ruolo di Dickie, una delle sue interpretazioni più complete e cariche di umanità. Abituato a modificare il suo fisico a piacimento (ricordate la performance de L’uomo senza sonno?) questa volta va ancora oltre. Gli si legge negli occhi, anche quando non è in primo piano, tutto il disperato bisogno di essere apprezzato per quello che avrebbe potuto essere e non è stato nella vita. Per quell’andata al tappeto di Ray Sugar Leonard che molti esaltano e altri riducono a scivolata sul ring. Quell’apprezzamento lo cerca in un Micky che, come spesso gli accade sul quadrato, viene messo alle corde dalla vita. In particolare da una madre a cui un’esuberante ignoranza impedisce di capire che ha davanti non la possibile realizzazione del sogno infranto del figlio maggiore ma un uomo che ha bisogno di individuare da solo la sua strada.
È in questo percorso doloroso che Micky trova dentro di sé la forza per arrivare ad un finale che è pacificatorio e, come detto, troppo ‘happy’. Ma il segno dentro di lui è cambiato. Ora non è più lui quello che viene guidato. Ora è lui a scegliere. Anche contro ogni apparente ragionevolezza ma con la capacità di distinguere ciò che, nei rapporti familiari, è zavorra da eliminare e ciò che, nonostante l’apparenza, costituisce un valore.
Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)
La donna che canta di Denis Villeneuve
In seguito alla morte della madre Nawal, due gemelli, Jeanne e Simon, scoprono alla lettura del testamento di avere un fratello e un padre ignoti a Beirut. Dei due, solo Jeanne decide di relazionarsi alla scoperta e di partire per Deressa (o Daresh), dove la madre compì i suoi studi universitari. Le ricerche della figlia procedono di pari passo con uno sguardo al tragico percorso giovanile della madre, entrambi diretti verso la verità sui parenti scomparsi.
Al quarto lungometraggio, Denis Villeneuve dimostra di essere un regista con due ossessioni: la matematica e le tragedie contemporanee. Dopo averle incrociate in un racconto su una strage compiuta nel 1989 al Politecnico di Montréal (Polytechnique), adatta una pièce teatrale sul dramma di una donna palestinese in un teorema filmico. La donna che canta è un film costruito come una formula e la prima inquadratura è la sua equazione: la prima immagine mostra infatti una finestra affacciata su una piantagione di ulivi, passando poi lentamente verso l’interno di una stanza dove un ragazzino rasato da dei miliziani palestinesi guarda verso di noi.
Dentro quello sguardo in macchina pieno di rabbia e innocenza si situa l’avvio e la soluzione dell’intricata epopea di due gemelli canadesi alla ricerca della verità sulle loro radici. Le indagini scorrono parallele al percorso travagliato che porta la madre cristiana a diventare una dissidente politica, subire reiterate violenze e poi fuggire in Quebec. Villeneuve mette in scena due personaggi dall’identica incognita (l’enigma sui parenti dei due gemelli) e ne segue, passaggio dopo passaggio, la soluzione del problema e la rivelazione dell’enigma, aprendo uno sguardo storico sul sanguinoso percorso di costruzione di un’identità palestinese. Le indagini di Jeanne e la vita della “madre coraggio” Niwal rappresentano infatti dimostrazione e corollario dello stesso enunciato: due percorsi che non solo arrivano alla medesima verità, ma anche a raccontare, in sostanza, la stessa storia due volte. Ma la ridondanza non fa paura a Villeneuve. Sa che la matematica crea solo certezze e perciò evita ogni di lasciare ogni possibile dubbio, costruendo la tensione ricorrendo a una logica talmente ferrea da pensare di poter rendere credibili anche le espressioni numeriche più paradossali (1+1=1).
Le ambizioni di La donna che canta sono quindi molto alte: cercare di raccontare un pezzo della sanguinosa storia recente della Palestina attraverso una drammaturgia di ampio respiro, tragica e complessa come un romanzo d’appendice. Ma le vicende della storia e della politica contemporanea, così ispide e indecifrabili, non si adattano bene alla liscia perfezione delle funzioni matematiche.
Edoardo Becattini (www.mymovies.it)
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