Archive for dicembre, 2022

Avatar – La via dell’acqua di James Cameron – recensione di Stefania De Zorzi

James Cameron è da sempre regista di kolossal cinematografici con l’intento dichiarato di stupire lo spettatore: a livello visivo l’impresa gli riesce anche con il suo ultimo film, “Avatar – La via dell’acqua”, sequel uscito a 13 anni di distanza dal celeberrimo capitolo precedente.

L’ex marine Jake Sully/Sam Worthington vive felice ormai da tempo sul pianeta Pandora fra i Na’vi delle foreste, insieme alla moglie Neytiri/Zoe Saldana, ai suoi tre figli Neteyam/Jamie Flatters, Lo’ak/Britain Dalton, Tuk/Trinity Bliss e alla figlia adottiva Kiri, misteriosamente concepita dall’Avatar della dottoressa Grace (Sigourney Weaver interpreta grazie al motion capture entrambi i ruoli), amici del ragazzo umano “Spider”/Jack Champion. L’arrivo del redivivo colonnello Miles Quaritch/Stephen Lang e del suo gruppo di spietati combattenti in cerca di vendetta, obbliga la famiglia a trasferirsi presso il clan di Metkayina, capeggiato dal fiero Tonowari/Cliff Curtis e dalla diffidente moglie di lui, Ronal/Kate Winslet. Le difficoltà di adattamento nel nuovo ambiente non sono poche e mettono a dura prova sia la coesione della famiglia Sully, sia la convivenza fra Na’vi dalla provenienza e dalla cultura diversa.

Se il primo “Avatar” è lo spunto iniziale per trama, personaggi e ambientazioni dell’episodio successivo, Cameron vira ben presto la storia verso l’esplorazione del mondo sfacciatamente simil-polinesiano dei Na’vi dei mari. Il fondale marino fornisce una prospettiva capovolta rispetto al mondo delle foreste, e ripete con una specularità insistita il mondo di sopra fra alberi-anima e pesci lucciola, facendo sfoggio di una lussureggiante flora subacquea e di una fauna variegata che comprende mostri pseudo-preistorici e gli interessanti tulkun, sorta di balene pacifiste intelligenti. 

Il film è magnifico a livello visivo, anche se la digitalizzazione estrema è al limite con la percezione artificiosa del lungometraggio animato o del videogioco ad alta definizione, mentre il motion capture, per quanto sofisticato,impedisce almeno in parte di godere della mimica degli attori in carne ed ossa.

Cameron orchestra uno spettacolo grandioso ed eccessivo, in cui mescola rimandi a “Moby Dick” e in maniera auto-referenziale a “The Abyss” e a “Titanic”: le sequenze nella nave capovolta soffrono di una certa ridondanza, anche se la storia scorre via piacevolmente fin quasi verso la fine a dispetto dei 190 minuti di durata, animata da un buon ritmo e dalla maestria tecnica del regista, che immerge letteralmente lo spettatore in galoppate anfibie o in inseguimenti subacquei mozzafiato.

Trama e sceneggiatura sono un po’ sfilacciate, meno compatte rispetto all’Avatar precedente, mentre risulta fastidiosa l’etica disneyana che smussa la cattiveria del colonnello Quaritch e ricompone in maniera prevedibile i conflitti familiari e sociali fra i Na’vi. Cameron salva il pathos della parabola ecologista grazie alla sua capacità di tratteggiare adolescenti teneri e un po’ scapestrati (sul modello di Leonardo di Caprio in Titanic), giovani eroi dall’aura vagamente tragica che rubano la scena agli adulti impavidi, saggi e abbastanza convenzionali, con l’eccezione delle figure femminili di Ronal e di Neytiri, focose e ben riuscite.

Chiudendo un occhio sulle imperfezioni, il film è imperdibile al cinema per lo splendore artistico delle ambientazioni, e per tutti i fan della fantascienza classica avventurosa.

dicembre 20, 2022 at 8:19 PM 1 commento

Omicidio nel West End di – Tom George recensione di Stefania De Zorzi

“Omicidio nel West End” è ambientato a Londra, nel 1953: a teatro “Trappola per topi” di Agatha Christie ha superato la sua centesima replica, e si pensa di farne un film. I sogni di successo si infrangono con l’assassinio del regista Leo Köpernick/Adrien Brody, su cui viene chiamato a indagare l’ispettore Stoppard/Sam Rockwell, coadiuvato dall’agente Stalker/Saoirse Ronan: i sospetti si concentrano sui membri della troupe teatrale e su coloro che vi gravitano attorno per l’adattamento cinematografico, dallo sceneggiatore di dubbio valore Mervyn Cocker-Norris/David Oyelowo al produttore fedifrago John Woolf/Reece Shearsmith.

Tom George, al suo esordio cinematografico, dirige un giallo-rosa che gioca esplicitamente con le convenzioni del giallo classico tutto orchestrato sulla scoperta dell’omicida misterioso, compresa la consuetudine narrativa di Agatha Christie di radunare i presunti colpevoli in una stanza, prima di svelare il nome dell’assassino. L’equilibrio nel gioco meta-testuale tra film e spettatore non è facile da raggiungere: la voce narrante di Köpernick è simpatica ma alla lunga risulta ridondante nella sequenza iniziale, così come un certo senso di artificiosità diffusa, peraltro voluto, rischia di disperdere il pathos della trama “gialla” e delle umane vicende. Meno male che il cast è ben selezionato: sia per i due protagonisti d’eccezione, Sam Rockwell e Saoirse Ronan, che incarnano dietro ingenuità e goffaggini un’umanità dal passato dolente, capace di affrontare le difficoltà dell’Inghilterra del dopoguerra con garbo ed ironia, sia per i comprimari azzeccati, dall’impetuoso Richard Attenborough/Harris Dickinson, all’impresaria dal fascino ambiguo Petula Spencer/Ruth Wilson, fino ai già citati Oyelowo e Shearsmith.

Va dato merito anche allo sceneggiatore Mark Chapell per la scrittura vivace ed arguta di dialoghi e situazioni: gli scambi di battute dell’ingenua e tenace novellina Stalker, a confronto da un lato con i personaggi narcisisti e cialtroneschi del jet-set, dall’altro con il suo mentore Stoppard, investigatore esperto, sebbene alcolista e disilluso, sono fra i momenti migliori del film. 

Una menzione speciale va anche alla bella scenografia d’epoca: il salone della polizia con le scrivanie disposte in file ordinate, gli interni lussuosi o kitsch delle suite d’hotel, le auto come magnifiche scatole di sardine dai colori pop che sfrecciano sulla neve farinosa con la consistenza irreale di una scena teatrale o di un sogno, riecheggiano piacevolmente lo stile ludico-onirico di Wes Anderson.

Nel complesso il film scorre via bene, e lo spettatore si può divertire a scovare rimandi e citazioni dal ricco microcosmo di Agatha Christie, inseriti a guisa di Easter Egg in scenografie e battute (il titolo stesso in originale “See how they run”, richiama la filastrocca dei tre topolini ciechi, riferimento sinistro in “Trappola per topi”), laddove Agatha Christie stessa viene de-mistificata in maniera sorprendente nelle sequenze finali.

dicembre 4, 2022 at 11:47 am 1 commento


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