BABYLON “Damien Chazelle” recensione di Stefania De Zorzi

gennaio 30, 2023 at 11:27 am 1 commento

E’ preferibile che il regista rimanga una presenza invisibile dietro le quinte, o che invece imprima la sua cifra stilistica in ogni sequenza? Damien Chazelle appartiene senza ombra di dubbio alla seconda categoria: “Babylon”, da lui diretto e sceneggiato, è l’espressione potente in ogni inquadratura del suo virtuosismo, non scevro di un certo auto-compiacimento.

La storia ha inizio a Bel Air nel 1926: Manny Torres/Diego Calva è un tuttofare che svolge lavori improbabili e talvolta ai limiti della legalità per il magnate del cinema Don Wallach/Jeff Garlin. A una festa conosce e si innamora perdutamente della bellissima Nellie LaRoy/Margot Robbie, aspirante attrice dedita ad alcool, droghe e gioco d’azzardo; poco dopo Torres diventa l’assistente del famoso attore Jack Conrad/Brad Pitt, divo del cinema muto. Nel 1927 viene proiettato nelle sale cinematografiche “Il cantante di jazz”, che segna l’avvento del sonoro: è la fine di un’epoca e l’inizio della fortuna di Torres, che nel frattempo non perde di vista Nellie, fragile vittima predestinata dello stritolante sistema hollywoodiano.

Chazelle pone il mondo del cinema sotto una lente deformante in cui il grottesco raggiunge vertici disturbanti: dalla sfrenata festa iniziale, al set del film in costume in cui si può morire davvero, passando per l’incubo infinito delle ripetizioni della stessa scena fra le mille difficoltà d’esordio del sonoro, fino alla perversa discesa agli inferi col gangster James McKay/Tobey Maguire.

Chazelle non ha paura di mostrare ciò che di solito viene omesso perché troppo ripugnante per i sensi o per la morale, oltre i limiti della pornografia e del trash: lo fa con i suoi talentuosi piani sequenza, le soggettive concitate, i giochi di luce in cui i luoghi e gli oggetti emergono gradualmente dal buio, o in cui viceversa i personaggi vengono avvolti dalle tenebre in maniera sinistra (di rilievo la fotografia di Linus Sandgren, collaboratore pressoché fisso del regista). Al tempo stesso evita il rischio della disumanizzazione seguendo con malinconica comprensione il declino dell’ex-divo Jack Konrad e facendo proprio lo sguardo appassionato di Torres per Nellie, in cui parte del fascino, oltre alla prorompente bellezza, è conferito da una vena di pazzia che le fa affrontare con un candore travolgente le peggiori situazioni, come una sorta di Marilyn Monroe ante-litteram.

Si ride spesso e quasi vergognandosi di farlo, lontani anni luce dal “politically correct”: se il mondo degli anni Venti è animato da riti orgiastici e caratterizzato da una palese indifferenza per il valore della vita umana e animale, la moralità degli anni Trenta è solo di facciata, e si nutre del disprezzo e dei pregiudizi delle elite intellettuali per i ceti inferiori (come nella memorabile scena della presentazione alla buona società di Nellie), così come per altre razze ed etnie (il musicista jazz Sidney Palmer/Jovan Adepo costretto a tingersi la faccia di nero, o Torres che si finge spagnolo anziché messicano).

La colonna sonora di Justin Hurwitz è la spina dorsale del film: all’inizio strepitante e invasiva, come i rumorosi set del cinema muto; poi più discreta per le nuove necessità del sonoro, e anche più modulata, elegante, a tratti naturalmente imprevedibile, com’è nella natura del jazz.

Fin qui tutto molto bello: il limite è quello di una rappresentazione che funziona per accostamento di sequenze, seppure girate con maestria, trascurando uno sviluppo vero e proprio della trama e dei personaggi (con l’eccezione di Konrad/Pitt, forse il più riuscito), e dove gli eccessi delle situazioni grottesche e della recitazione, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione di Nellie da parte di Margot Robbie, rischia a lungo andare di risultare indigesto.

A prescindere dalle sue imperfezioni, il film è assolutamente da vedere: senza temere la durata di oltre tre ore, perché il ritmo è incalzante e i dialoghi brillanti; pronti però a ricevere qualche pugno nello stomaco nella visione da incubo lisergico di Chazelle, in cui l’unico conforto morale è l’immortalità degli attori sulla pellicola e il senso terapeutico della settima arte per lo spettatore.

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Avatar – La via dell’acqua di James Cameron – recensione di Stefania De Zorzi Gli spiriti dell’isola regia Martin McDonagh recensione di Stefania de Zorzi

1 commento Add your own

  • 1. altadefinizione.soy  |  gennaio 16, 2024 alle 10:04 PM

    È per questo che comunichi con me? Io sono standard, prenditi una pausa dall’originalità. Ho capito che questo è un film.

    Rispondi

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