Archive for dicembre, 2011

Black Keys – El Camino ( cd – 2lp )

A qualcuno verrà in mente di chiamarli frivoli e imborghesiti, furbastri e ruffiani. Falsamente sorpresi, nelle loro interviste, dal successo clamoroso dello scorso “Brothers“, a seguito del quale spunta dal cilindro questo seguito. La band più cool del momento, o giù di lì, non può certo permettersi battute d’arresto, ora che come Re Mida paiono tramutare ogni loro mossa in un culto, dai video alle strategie di marketing.
“El Camino” è un album che “chiama”, invoca una pioggia di fischi dai fan di più lunga data: ma come, dilapidare il credito acquisito con “Brothers” – che aveva tutto, belle ragazze e soldi e la smorfia intelligente di chi è al di sopra di tutto questo – col loro disco più sfrontatamente catchy?

Eppure è un disco che funziona, affilato e arrotato dal solito Danger Mouse, forse non il più geniale dei produttori, ma una sicurezza quando si tratta di mettere insieme un “prodotto”, appunto. L’intesa è rodata fin dai tempi di “Attack and Release” – che era già una prova generale di questo “El Camino” – e si dipana dagli immancabili cunei di penetrazione del garage anni 60 del singolo “Lonely Boy” e di “Hell Of A Season” alle passioni per il vintage seventies della ballata hard rock “Little Black Submarine” e dell’hard-blues pirotecnico di “Gold On The Ceiling”, reminiscente del periodo “Attack And Release” appunto.
Quasi del tutto scomparse, insomma, le sinuose sensazioni R&B di “Brothers” (se non nel disco-funk della finale “Mind Eraser”), sacrificate a un lavoro più frettoloso, che sfrutta le intuizioni sonore del disco dell’anno scorso (dall’interazione tra la distorsione, lo stoppato e la roca emozionalità della voce di Auerbach al drive sensualmente scanzonato dell’organetto), calandole però in quella che è sempre stata la musica del duo di Akron.

Sono forse hit spensierate come “Dead And Gone” (ancora sixties anabolizzati) a costituire il momento migliore del disco, mentre una traccia come “Sister” dà dimostrazione delle ancora vive potenzialità del gruppo, col suo tiro revivalista sospeso tra divismo soul e frivolezza sintetica così eighties.
Sono Dan Auerbach e Patrick Carney da dare per “persi” dietro alle lusinghe del successo? Niente di più sbagliato. “El Camino” dimostra piuttosto che sono in pieno controllo della propria carriera e della propria musica.

Lorenzo Righetto (www.ondarock.it)

dicembre 21, 2011 at 10:37 am Lascia un commento

Vento di primavera di Rose Bosch ( dvd e b-ray )

1942. Estate. Dopo l’invasione da parte delle truppe della Germania hitleriana gli ebrei sono stati prima obbligati a portare la Stella di David sugli indumenti, e poi sono stati progressivamente esautorati dai loro impieghi e impediti ad accedere a scuole e luoghi pubblici. Ma ora Hitler ha deciso di procedere allo sterminio di massa e vuole che il governo collaborazionista insediato a Vichy gli procuri dalla sola Parigi almeno 20.000 dei 25.000 ebrei residenti. I suddetti verranno dapprima condotti in campi di raccolta in territorio francese e poi, una volta ultimati i lavori per i forni crematori nei lager, avviati a morire. Il maresciallo Pétain aderisce senza difficoltà alla richiesta e la notte del 16 luglio (i tedeschi avevano chiesto il 14 dimenticando la festa nazionale) la retata si svolge. Tredicimila uomini, donne e bambini ebrei vengono prelevati dalle loro abitazioni e portati nel Vélodromo d’Hiver, prima tappa del loro calvario.
Il punto di vista che il film assume è quello di alcuni bambini che vivono nel quartiere di Montmartre e, in particolare quello del decenne Joseph. Vogliamo concentrarci sull’invito a vedere il film superando l’atteggiamento che è stato purtroppo fatto proprio da alcuni di quelli a cui il produttore Ilan Goldman (forte del successo si La vie en rose) si è rivolto perché partecipassero all’impresa. “È storia antica”, “Non importa a nessuno”. Non è storia antica e la regista Rose Bosch è riuscita nell’intento di farcela percepire come purtroppo attuale. Intendiamoci: tutto è filologicamente coerente con l’epoca con cui si sono svolti i fatti. Fatti che il cinema francese non aveva mai affrontato con tanta precisa e documentata forza se non in un documentario televisivo e che ora riemergono come memoria del passato ma anche come monito sul presente.
La Bosch lavora su una tripartizione narrativa. Da un lato Hitler nel suo buen retiro del Berghof, dall’altro Pétain, Laval e i loro accoliti e, nel mezzo, le famiglie ebraiche colte nella loro quotidianità all’interno della quale sono stati inoculati ad arte (anche grazie al media più diffuso all’epoca, la radio) i germi del più irrazionale ma efficace disprezzo per l’altro. Alimentandolo con la ripetizione delle menzogne in modo da assuefare le menti all’idea della ‘normalità’ dell’emarginazione. Il film non accusa ‘i francesi’ tout court e anzi sottolinea il fatto che se dei 25.000 ebrei 12.000 sono sfuggiti alla retata lo si deve a parigini che li hanno aiutati mettendo a repentaglio la propria esistenza. Ma resta comunque impressa nelle retine la gestione dell’intera operazione da parte di uomini che non indossano le divise delle SS o della Wehrmacht ma quelle delle forze dell’ordine e militari francesi. Allora per quegli sguardi infantili diventa ancor più difficile anche solo tentare di darsi una spiegazione di quanto accade. Così quando si assiste alle scene delle migliaia di esseri umani ammassati con pochissime cure e senz’acqua nel Velodromo non possono non tornare alla mente le immagini dello stadio di Santiago del Cile dopo il colpo di stato di Pinochet.
Ma c’è un momento in cui si percepisce lo iato che si è insediato tra realtà e pregiudizio. Quando il dottor Sheinbaum (interpretato da un Jean Reno in cui solidità fisica e morale formano un tutt’uno) grida dinanzi all’ennesimo sopruso: “Non ne avete il diritto!” è la coscienza civile, è un’umanità vinta ma non piegata, è la Ragione che grida con lui. Ma in quello stesso istante lo spettatore ‘sente’ che si tratta di un appello irricevibile da chi sta dall’altra parte. Una parte per la quale la parola diritto ha perso qualsiasi valore, qualsiasi possibilità di confronto in cui essa torni a individuare un senso che sia davvero comune.
Chiediamoci se questo svuotamento di significati fondamentali non abbia trovato anche nella nostra società contemporanea una sua consistenza. Chiediamocelo riflettendo sulla risposta che ci siamo dati e ringraziando questo film per avere suggerito la domanda.

Giancarlo Zappoli (www.mymovies.it)

dicembre 20, 2011 at 10:15 am Lascia un commento

Captain America di Joe Johnston ( dvd – 3D e b-ray )

Il giovane Steve Rogers farebbe di tutto per arruolarsi: scioccato da ciò che i nazisti stanno facendo in Europa, non sopporta di starsene con le mani in mano. La sua costituzione fragile, l’asma, l’altezza tutt’altro che idonea, però, fanno sì che venga rispedito al mittente ad ogni tentativo. Finché un giorno, un uomo di stato, il dottor Abraham Erskine, s’interessa a lui e gli propone di sottoporsi alla sperimentazione di un siero che ne farà il primo super soldato dell’esercito a stelle e strisce. Rogers, dunque, subisce una straordinaria trasformazione, ma sarà solo dopo un passaggio per le fila dello show-business (e cioè solo dopo aver indossato una calzamaglia) a divenire davvero Captain America.
Il protagonista aveva un appuntamento -lo ricorda spesso il testo del film-, ma è in ritardo. Tanti altri supereroi, tutti più giovani anagraficamente, hanno occupato preventivamente i nostri spazi di capienza e non è peccato ammettere che si fa leggermente fatica a fare posto anche a lui. Occorre però aggiungere, immediatamente, che quel posto Captain America se lo guadagna, con un’entrata in scena scoppiettante. Sulla lunga distanza (124 minuti) ha poi un declino, d’altronde non vola e probabilmente in termini di sceneggiatura gli è stato chiesto troppo, ma la prima parte del suo “biopic” ha un carattere cinematografico notevole. Mentre scorrono sullo schermo le immagini degli anni ’40, con i ragazzi in uniforme al luna park, scorrono parallele nella mente quelle dei film americani che hanno raccontato quegli anni ben prima di Johnston, la propaganda cartacea e radiofonica, i cinegiornali: l’approdo al fumetto è sottile e obbligato.
L’icona dello zio Sam, con quel dito puntato che diviene poi il dito di Stanley Tucci e trasforma uno scarto in un leader, come in un Giudizio Universale pop art collega con grande efficacia ed immediatezza visiva lo spirito degli Stati Uniti con il piccolo eroe di un film, chiudendo un cerchio immaginario ma assai reale.
Captain America non ha superpoteri (ha una super arma, lo scudo) ma non è certo un personaggio che va per il sottile: Super buono –perché il siero esaspera il carattere di partenza e Steve Rogers è un bravo ragazzo- è nato per combattere il Male estremo, e cioè la follia nazista, con la stessa logica ma ribaltata di segno (la perfezione fisica scientificamente acquisita, l’ideale superomistico). La bellezza del film di Joe Johnston è quella, in questo contesto tutto di maiuscole, di non perdere mai di vista il ragazzino del prologo: sotto i muscoli di Chris Evans, già torcia umana, il film ritrova sempre l’ingenuità, il senso di smarrimento e il coraggio testardo del personaggio delle origini, persino potenziate. Il resto è noia. Fatta eccezione, in alcune scene, per il duo di cattivoni da cartoon formato da Hugo Weaving e Toby Jones, e soprattutto per Tommy Lee Jones, folgorante scettico, vero macho del film.

Marianna Cappi (www.mymovies.it)

dicembre 19, 2011 at 11:52 am Lascia un commento

Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( dvd e b-ray )

Cyril ha dodici anni, una bicicletta e un padre insensibile che non lo vuole più. ‘Parcheggiato’ in un centro di accoglienza per l’infanzia e affidato alle cure dei suoi assistenti, Cyril non ci sta e ostinato ingaggia una battaglia personale contro il mondo e contro quel genitore immaturo che ha provato ‘a darlo via’ insieme alla sua bicicletta. Durante l’ennesima fuga incontra e ‘sceglie’ per sé Samantha, una parrucchiera dolce e sensibile che accetta di occuparsi di lui nel fine settimana. La convivenza non sarà facile, Cyril fa a botte con i coetanei, si fa reclutare da un bullo del quartiere, finisce nei guai con la legge e ferisce nel cuore e al braccio Samantha. Ma in sella alla bicicletta e a colpi di pedali Cyril (ri)troverà la strada di casa.
Dalla prima inquadratura il piccolo protagonista de Il ragazzo con la bicicletta infila quella precisa traiettoria che seguivano prima di lui l’adolescente di La promesse, la Rosetta del film omonimo, il padre falegname de Il figlio e ancora il giovane disorientato de L’enfant. Dentro a una corsa possibile verso una soluzione che arriverà, i Dardenne rinnovano l’interesse per l’infanzia incompresa, che tiene testa e non si assoggetta al mondo degli adulti, fronteggiandolo con improvvise fughe e un linguaggio impudente. Di nuovo è la fragile pesantezza dell’essere, che condizionava (già) le azioni dei protagonisti precedenti, il centro del film. Dopo il tentativo di rinnovamento formale e prospettico del loro cinema (Il matrimonio di Lorna), i fratelli belgi ritrovano la cinetica e un personaggio che avanza negli spazi attraversati e nel proprio destino. Come nel Matrimonio di Lorna sarà l’irruzione di un improvviso atto d’amore a travolgere, fino ad annullare, l’indifferenza di un padre colpevole di abbandono e dello sbandamento emotivo del figlio.
Thomas Doret incarna con lirismo lo spirito gaio e selvaggio dei mistons di Truffaut, di cui riproduce i comportamenti anarchici e antiautoritari negli esterni e in mancanza di interni domestici e familiari adeguati. Cyril, figlio ripudiato con gli anni in tasca, resiste a muso duro al vuoto affettivo che lo circonda, pedalando dentro e attraverso la paura, intestardendosi nel silenzio o facendo il diavolo a quattro. Il reale per il fanciullo è sempre in agguato ma ad esso si oppone ‘aggrappandosi’ e stringendosi forte a una figura femminile bella e raggiungibile come una mamma. Cécile de France, sopravvissuta allo tsunami di Clint Eastwood, è il volto e il corpo che Cyril vuole per sé, la figura materna che pretende e a cui si concede. La loro relazione procede per tentativi ed errori, come ogni processo di apprendimento, producendo una passeggiata a due ruote di grande forza espressiva e creativa. Una promenade che risana lo scarto dell’essere stati generati senza essere stati appropriatamente allevati, ma prima ancora desiderati. Samantha e il suo negozio di coiffeur diventano allora l’ancora di salvezza e il riscatto sociale per quel ‘ragazzo selvaggio’, sempre fiero, sempre contro. Se come sosteneva Luigi Comencini mettersi al livello dell’infanzia è l’unico modo per liberarla, i Dardenne accreditano e ribadiscono la sua affermazione, accompagnando la corsa di Cyril verso una raggiunta consapevolezza e un nuovo elemento: l’amore.

Marzia Gandolfi (www.mymovies.it)

dicembre 18, 2011 at 10:42 am Lascia un commento

This is England di Shane Meadows ( dvd )

Inghilterra 1983. Shaun è un dodicenne spesso irriso dai compagni di classe. Al momento delle vacanze estive il ragazzino entra a far parte di un gruppo di skinhead, che lo prendono sotto la loro ala protettiva. In questo paesino della provincia inglese Shaun crescerà con i nuovi amici, tra Dr. Martens e contraddizioni, in un periodo difficile per la nazione coinvolta nella guerra delle Falkland.
Lo sguardo autobiografico del regista Shane Meadows sull’Inghilterra di inizio anni ’80 è dolce e amaro. Traspare l’amore per la propria terra, manifestato con le musiche coinvolgenti dell’epoca e i tipici luoghi comuni della gioventù britannica, e si percepisce una forte critica a un paese che lo delude, perchè si cresce e si diventa adulti senza grosse prospettive. Shaun, interpretato dal bravissimo Turgoose, conosce già il dolore, toccato con la morte del padre nel conflitto con l’Argentina, i suoi occhi, tuttavia, comunicano speranza, vitalità, tipici di un’esistenza appena iniziata. Nel suo gruppo, vestito con la “divisa” (Dr. Martens, camicia a quadri, bretelle e testa rasata) convivono inizialmente giovani con la necessità di ideali, che compiono ragazzate e che si divertono come molti coetanei. È l’arrivo dell’elemento disturbante Combo (Stephen Graham) a innescare la bomba a orologeria, e una spirale razzista e violenta.
Il tic-tac del timer che conduce all’esplosione finale, è il rapido percorso di crescita del piccolo Shaun che, in seguito all’atto scellerato di Combo (che impersona il fascino del Male), compie il suo primo atto di volontà, di fronte all’immensa distesa di acqua salata.

Mattia Nicoletti (www.mymovies.it)

dicembre 17, 2011 at 12:28 PM Lascia un commento

Kate Bush – 50 words for snow ( cd – 2lp )

Nel 1911 Franz Boas, considerato il padre dell’antropologia moderna, nell’introduzione dell'”Handbook of North American Indians” fece un riferimento esplicito alla lingua Inuit e al fatto che gli eschimesi usassero un sorprendente quantitativo di parole per indicare la neve. Un linguista americano, Benjamin Whorf, ne individuò sette ma varie leggende iniziarono a parlare di cinquanta, quando non addirittura di cento termini esistenti – dando l’idea che questa popolazione vedesse la neve in un’ottica del tutto diversa dalle altre. Proprio da questa curiosa credenza nasce il titolo del nuovo album dell’influente usignolo britannico, il cui genio si risvegliò già da un lunghissimo letargo nel 2005 con il bel doppio Lp “Aerial“. Quest’anno la nostra Signora del Kent ha già dato alle stampe un disco, nel quale ha voluto donare nuova linfa ad alcune canzoni registrate tra il 1989 e il 1993 (“Director’s Cut“, da queste parti ritenuto poco più di un superfluo esercizio di autoindulgenza) e che l’ha vista per la prima volta dopo tanti anni (“The Whole Story”, la sua prima e unica raccolta di successi, risale ormai al lontano 1986) rivisitare il proprio passato. Non è finita qui: la cantautrice ha ora una propria etichetta discografica, la Fish People, e si è riappropriata di quattro importanti lavori dapprima in mano alla Emi. Le ristampe sono state un’occasione sprecata: solo “The Red Shoes” è stato effettivamente rimasterizzato (dall’eccellente James Guthrie).

Mesi fa era già stato annunciato un lavoro completamente nuovo, cui Kate Bush si sarebbe dedicata subito dopo “Director’s Cut”, e ora è qui tra le nostre mani uno degli album più bizzarri della sua carriera. Il suo titolo, “50 Words For Snow”, è eloquente – si tratta di un soffuso e sofisticato tappeto strumentale che intende farci compagnia nell’inverno più gelido e malinconico della nostra vita, sulle note sussurrate di canzoni minimali, di melodie dilatate che ruotano come dervisci in punta di piedi. Impalpabili e spesso evanescenti, proprio come lo è la materia poeticamente evocata. Dimenticate il Fairlight CMI in bella vista nel capolavoro “Hounds Of Love” e le venature rock che aiutavano a rendere ancora più magici e commoventi gli intimi e rilassati “moments of pleasure”: l’elettronica è ancora presente, sì, ma solo sullo sfondo e in piccole tenui pennellate. Il protagonista del paesaggio sonoro è quasi sempre il pianoforte, anche se la ripetizione (talvolta esasperata) di alcuni passaggi rende gli arpeggi turgidi e asettici. Non si comprende inoltre perché Kate usi così poco la propria voce, forse per la prima volta in 33 anni, che a tratti presenta macchie di raucedine. Stiamo pur sempre parlando di un’artista il cui ultimo tour risale al 1979 – troppe sigarette, forse?

Se da una parte fugge con intelligenza dai cliché più pericolosi – sgombriamo subito il campo dai fraintendimenti: questo non è un disco natalizio – dall’altra la Bush sembra voler recuperare a tutti i costi quelle idee di “Aerial” che avevano suscitato non poche perplessità (“Mrs. Bartolozzi”, per esempio) già al primo giro. L’incipit “Snowflake” è una poesia suggestiva, dal suono “spazioso” con poche percussioni che si odono ogni tanto in lontananza, in cui l’artista inglese riesce bene a far immaginare il percorso del fiocco di neve (“Il mondo è così chiassoso, continua a cadere, io ti troverò”, lo esorta con amore mamma Kate) dalla nuvola fino al terreno. La voce bianca è del pargoletto Bertie, appena tredicenne – che ce la mette tutta, ma in più di un passaggio sembra avere un brutto raffreddore. Chi scrive vorrebbe fare un gentile appello (pur sapendo già in partenza che sarà inascoltato) affinché abbia fine questo perverso trend che si è impossessato di Bush, Peter Gabriel Tori Amos: la presenza dei figli nei dischi dei genitori, quando la loro voce non è ancora formata (l’incolpevole Bertie) o quando il talento è pressoché inesistente (a qualcuno forse piacciono le performance della figlia dell’autore di “Solsbury Hill”?), è davvero una delle cose più fastidiose dopo la recente insistenza nell’uso dell’Auto-tune da parte di voci che non ne hanno il minimo bisogno.

Il viaggio continua con “Lake Tahoe”, la storia dello spettro di una donna che emerge da un lago ghiacciato alla ricerca del proprio cane (ricorda non poco alcune cose di Joni Mitchell) e con “Misty”. Avvolta in un soffice arrangiamento jazzato, Kate racconta con erotico candore la seduzione di un pupazzo di neve, per un amore che è destinato inesorabilmente a sciogliersi. Anche i silenzi hanno parole, sono parte integrante del tessuto sonoro – un po’ come lo erano nell’unica prova solista di Mark Hollis dei Talk Talk. La melodia però spesso ruota su se stessa, e attendiamo invano la transizione (al massimo s’interrompe il piano ed entrano gli archi) che, puntualmente, non arriva.

“Wild Man” è il cuore pulsante dell’album, posizionato strategicamente al centro e che riesce a far trasparire per un attimo la sopita anima rock della Bush (sebbene sia più accostabile a “King Of The Mountain” che a “Rubberband Girl”). Ad accompagnarla c’è Andy Fairweather Low, conosciuto in primis per la sua militanza negli Amen Corner – artefici di una cover di successo della hit “Il Paradiso” di Patty Pravo, “(If Paradise Is) Half As Nice” – e poi in veste di sessionman di lusso per Roger Waters ed Eric Clapton. Le sorprese non finiscono qui, visto che finalmente Kate ha potuto coronare un sogno. Già, perché se Elton John è stabilmente nel pantheon della cantante (anni fa riprese la sua “Rocket Man” per un disco-tributo) questa volta è riuscita a convincerlo a duettare con lei in un episodio che gli calza a pennello, uno dei pochi ancora capaci di toccare sul serio le corde dell’emozione. “Snowed In At Wheeler Street” è la storia di due anime che si amano da sempre, e che si incontrano (reincarnate) in epoche storiche lontane – si va dall’antica Roma agli Stati Uniti dell’11 settembre. C’è sempre qualcosa che alla fine arriva a separare i due amanti. Bella l’idea di fondo, ottima la resa finale.

Non si può dire lo stesso, purtroppo, della title track: già in passato, nell’incantevole mondo di Kate Bush, il confine tra il sublime e il ridicolo si era dimostrato assai sottile (pensiamo al ritornello di “Pi”, composto dai numeri decimali del pi greco!). Qui è tutto molto debole, con un gioco tra lei e l’attore Stephen Fry reclutato per l’occasione che proprio non funziona. Si tratta dell’elenco di cinquanta termini, veri e inventati, che identificherebbero la neve – non mancano “spangladasha”, “whirlissimo”, “slipperella”, “creaky-creaky”, “whippoccino” e “boomerangablanca”. Si aggiudica la palma della peggior canzone mai scritta e cantata dalla Bush – senza ipocrisie, a un’altra artista un espediente simile non l’avremmo perdonato mai e poi mai. Quando è troppo è troppo, specialmente quando lei appare per ricordare che “ne mancano ancora”. Per fortuna a risollevare le sorti arriva “Among Angels”, capace di rievocare meraviglie del passato come “Under The Ivy” con un testo che fa sospirare l’atteso giungere della primavera.

Alessandro Liccardo (www.ondarock.it)

 

 

dicembre 16, 2011 at 12:47 PM Lascia un commento

The Conspirator di Robert Redford ( dvd e b-ray )

Washington, aprile 1865. Frederick Aiken è un ufficiale dell’esercito nordista, sopravvissuto alla Guerra Civile e deciso a vivere e innamorarsi in una nazione finalmente unita. Avvocato in tempo di pace, è chiamato a difendere davanti a un tribunale militare Mary Surratt, accusata di complicità nell’assassinio di Abramo Lincoln. Proprietaria di una pensione, supposto luogo della cospirazione, e madre di John Surratt, amico e frequentatore di uno dei sette uomini coinvolti nello scellerato delitto, Mary si dichiara innocente e chiede per sé un processo imparziale. Frederick, riottoso ad accettare la nomina di avvocato difensore e fermamente convinto della colpevolezza di Mary, nondimeno avvia la sua indagine e prepara difesa e arringa. Resistendo alla requisitoria e ai metodi poco ortodossi del pubblico ministero, il giovane avvocato si appassiona alla causa e a quella sua cliente, innocente fino a prova contraria. La ricerca della verità nel rispetto della Costituzione, gli alienerà gli amici e gli indicherà i nemici dentro un paese sull’orlo del collasso e dell’isterismo.
Alla maniera di Jim Garrison, procuratore ostinato nel JFK Un caso ancora aperto di Oliver Stone, Frederick Aiken affronta il cuore nero e rivelatore della politica americana. ‘Legali’ all’indomani dell’assassinio dei loro presidenti, Garrison e Aiken incarnano una ribellione che si riverbera in una presa di coscienza individuale, in lotta con le istituzioni e contro un establishment che consuma il crimine ai danni di un individuo, colpevole o innocente, nascondendosi dietro l’iter ipocrita della giustizia. L’avvocato colonnello di James McAvoy proverà allora, nell’America infiammata di Via col vento, a restituire un frammento di innocenza alla collettività, che fuori dall’aula precipita nel caos emotivo prodotto dalla morte di Lincoln, avvocato degli umili, Presidente degli (afro)americani, punto di accumulazione di interrogativi da ricomporre.
Quattro anni dopo Leoni per agnelli, Robert Redford realizza un courtroom drama che trova nel confronto con la tradizione il terreno fertile per interrogare la storia e la coscienza americana. A partire da questa considerazione si chiarisce la classicità di Redford: nell’affinamento di un linguaggio che si vuole il più possibile conforme al proprio oggetto. Per questo non bisogna sottovalutare il ricorso al genere giudiziario. Dietro la parvenza rassicurante del già visto scorre una visione confacente a una precisa idea di cinema. Robert Redford, che è stato sullo schermo il giornalista irriducibile di Alan Pakula, condannato a urtare contro gli ostacoli frapposti alla rivelazione dello scandalo Watergate, si presta perfettamente a diventare il testimone della corruzione del sogno americano. Procedendo col passo greve e dolente della tragedia, The conspirator è la densa ricostruzione dell’indagine condotta da un giovane avvocato intorno all’assassinio di Abramo Lincoln, che denuncia l’impossibilità di avvicinare anche la più piana delle verità. Cortocircuitando realtà e finzione, passato e presente, cospiratori di ieri e terroristi di oggi, Redford dichiara l’illusione democratica, puritana e liberale del ‘giusto processo’, articolando il suo film attraverso due fronti: al di qua e al di là del confine più che simbolico rappresentato dalla sbarre della prigione e dalla linea retta che separava Nord e Sud, tagliando in due il Paese. Su quel confine si incontrano per un attimo un unionista e una confederata, un avvocato e una cliente, un figlio e una madre in un mutuo scambio di salvezza che non scamperà la Mary di Robin Wright ma convertirà Frederick Aiken al giornalismo, impiegandolo come city editor del Washington Post, il quotidiano per cui scriveva il Bob Woodward di Redford in Tutti gli uomini del presidente. A clamorosa e geometrica dimostrazione di un percorso professionale e politico incline a produrre istanze come la battaglia contro il pregiudizio o la riaffermazione dei principi fondamentali sanciti nella costituzione della (sua) nazione. Puntando il dito contro ‘l’uomo di fiducia’ degli States, contro le inerzie, le complicità e le rinunce di una giustizia che si vorrebbe giusta mentre impicca e inabissa i suoi nemici, il regista pone al centro dell’aula l’intervento individuale e la relazione tra il potere assoluto e il diritto alla vita del singolo. E all’iconoclastia di Obama oppone lo ‘spettacolo’ della pena capitale. Obiezione accolta.

Marzia Gandolfi www.mymovies.it

dicembre 15, 2011 at 1:03 PM Lascia un commento

Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma ( dvd e b-ray )

 

Cina, 690 d.C. La reggente Wu si appresta ad essere incoronata imperatrice (prima donna nella storia cinese), ma i molti nemici e cospiratori giocano le loro ultime carte per impedirlo. Nel frattempo la costruzione di un gigantesco Buddha in onore della reggente viene rallentata da alcune morti misteriose per autocombustione; sul caso viene chiamato a indagare il detective ribelle Dee, già esiliato dalla stessa reggente.
C’era un tempo (gli anni ’80-’90) in cui al nome di Tsui Hark era stata giustapposta l’etichetta – semplicistica ma indicativa – di “Steven Spielberg di Hong Kong”. Dopo un decennio trascorso seguendo progetti eterogenei ma spesso deludenti, è come se il regista si fosse ricordato di quella che è la sua specificità, nonché il suo maggior talento. Avvalendosi di capitali della Cina continentale e sfruttandone in pieno i mezzi, Hark confeziona infatti un romanzo d’avventura che potrebbe tranquillamente essere tratto da un fumetto dell’era d’oro della nona arte per come sa unire ingredienti semplici ma paradossalmente divenuti irraggiungibili per i più: divertimento, azione, qualche risata, suspense e ancora divertimento. Proprio come ai bei tempi in cui Indiana Jones faceva andare la frusta.
L’idea di ambientare nella più classica delle ambientazioni fantasy-wuxia un vero e proprio whodunit permette a Tsui di allestire un curioso pantheon di personaggi degno dei fasti di Zu, Warriors of the Magic Mountain, insistendo sull’elemento del trasformismo, topos tradizionalmente caro all’autore (Peking Opera Blues, Swordsman 2). Oltre a un Andy Lau che pare aver sorseggiato l’elisir di eterna giovinezza e a un cast di alto profilo (dopo Gallants, altro cameo suggestivo di Teddy Robin Kwan), la notizia è che Tsui Hark è tornato e sembra puntare decisamente a quel trono che fu suo e che a Hong Kong da troppo tempo resta vacante.

Emanuele Sacchi (www.mymovies.it)

dicembre 14, 2011 at 6:10 PM Lascia un commento

Amy Winehouse – Lyonesse: Hidden treasures ( cd – 2lp )

Sono passati pochi mesi dalla scomparsa di Amy Winehouse una delle voci femminili più straordinarie degli ultimi anni, l’ultima grande star del soul internazionale. Una scomparsa ahimè annunciata, figlia di un percorso suicida e di una vita dissoluta, specie negli ultimi anni, quando alcool e droghe hanno avuto una parte non certo secondaria in questa triste sceneggiatura. Da tempo si vociferava del successore di “Back to black“, di quali svolte avrebbe potuto segnare; Amy ci stava lavorando a spizzichi e bocconi, e nei pochi momenti di lucidità qualche prezioso barlume di genio usciva ancora dal suo immenso ed indiscutibile talento.
I rumours più accreditati convergevano sull’ipotesi di un taglio più reggae, modalità non nuova per l’artista inglese, e la curiosità si insinuava sempre maggiore, non solo fra gli innumerevoli fan sparsi per il mondo.

“Lioness: Hidden Treasures”, il primo disco postumo di Amy, si apre proprio con i ritmi in levare di “Our Day Will Come” (un’outtake di “Frank“), ricco di quelle venature gospel in grado di renderlo un singolo perfetto per il Natale alle porte. La successiva “Between The Cheats”, che ci riporta agli aromi fifties/sixties già ben descritti in passato dalla Winehouse, è uno dei tre inediti recentemente incisi compresi nell’album, risalente a delle session tenute nel maggio del 2008. Il secondo inedito è “Like Smoke”, dove la presenza del rapper Nas assicura la giusta contaminazione fra soul ed hip hop.
Il terzo inedito, forse la vetta dell’album, è la meraviglia conclusiva “A Song For You” (al momento l’ultima registrazione nota di Amy, risalente alla primavera del 2009), con dedica finale densa di significati al soul man di grande successo Donny Hathaway, altra personalità complessa e problematica, che a soli 33 anni chiuse il discorso con la vita gettandosi dal quindicesimo piano di un albergo newyorchese: era il 13 gennaio del 1979.

Tre sono le alternative take di “Back To Black”: “Tears Dry”, che diventerà poi “Tears Dry On Their Own”, “Valerie”, che comparì nella deluxe version, e lo spoglio demo di “Wake Up Alone”. Trattasi per lo più di curiosità per fan accaniti e maniaci completisti, visto che le versioni già edite restano senz’altro da preferire. “Will You Still Love Me Tomorrow?” è la sentita cover del brano delle Shirelles, composto nel 1960 da una giovanissima Carole King: la voce della Winehouse è da applausi a scena aperta, ma la batteria pare un tantino invadente, con quell’incedere marziale un po’ forzato.
“The Girl From Ipanema” è il pezzo che Amy nel 2002 fece ascoltare a Salaam Remi per guadagnarsi le dovute attenzioni, versione neanche troppo personale dell’evergreen verdeoro, nella quale Amy gioca a gorgheggiare in jazzy style. Atmosfere jazzate anche nella cover di “Halftime”, già incisa da Frank Sinatra, e risalente alle session di “Frank” (con Ahmir “?uestlove” Thompson dei Roots alla batteria), nella più spigliata e sbarazzina “Best Friends, Right?” e nel riuscito duetto con Toni Bennett, la notturna “Body And Soul”.

“Lioness: Hidden Treasures” è lungi dall’essere considerabile il terzo “vero” disco della Winehouse, non è certamente il prodotto al quale lei aspirava, è più una compilation di rarità che un album concepito in maniera organica, un elenco di dodici tracce che mette in fila (come giustamente sentenzia il titolo) una serie di “tesori nascosti”: una manciata di inediti accanto a versioni alternative di canzoni già note e qualche demo messo in bella copia per l’occasione.
Trattasi comunque di un disco gradevole, per il quale i due produttori Salaam Remi e Mark Ronson hanno eseguito uno sforzo notevole per amalgamare registrazioni provenienti da fonti diverse, con una qualità di partenza fortemente disomogenea.

Album sufficientemente rassicurante per essere considerato un’azzeccata strenna natalizia, “Lioness” con ogni probabilità diventerà il terzo best seller della cantautrice inglese.
Non ci sorprenderebbe se in futuro venissero scoperte ulteriori rimanenze nei cassetti di casa Winehouse, ma nel caso di “Lioness” pare che l’operazione non sia completamente speculativa: parte del ricavato sarà devoluto alla fondazione a lei intitolata.
“Lioness” sarà comunque una manna dal cielo per tutti coloro che non potevano accontentarsi della manciata di brani compresi negli unici due album pubblicati in vita da una delle star più combattute, controverse e dotate del secondo millennio.

Claudio Lancia (www.ondarock.it)

dicembre 13, 2011 at 1:46 PM Lascia un commento

Lanterna verde di Martin Campbell ( dvd e b-ray )

Pilota d’aerei abile e spericolato, uomo inaffidabile ma affascinante e soprattutto temerario senza paura Hal Jordan è l’ignaro prossimo Lanterna Verde, un’istituzione galattica che sceglie e arruola i migliori individui da tutti i pianeti del cosmo con il fine di tutelare l’universo. La minaccia stavolta è delle peggiori, Parallax, creatura creduta sconfitta per mano di una delle più grandi Lanterne Verdi mai esistite e invece ancora viva. Un mostro che si nutre della paura e che potrà essere sconfitto solo da quella Lanterna che saprà anteporre la forza della propria volontà al timore della morte.
Come se non bastasse anche una nemesi terrestre, più alla portata del pericolo quotidiano e del rapimento fidanzate (o aspiranti tali), prende forma contestualmente alla “nascita” dell’eroe.
Sceneggiato da un team che accorpa professionisti del supereroismo televisivo come Michael Green e Greg Berlanti (No ordinari family, Smalville, Heroes), del fantastico cinematografico come Michael Goldenberg (un Harry PotterPeter Pan, Contact) e infine del mondo dei fumetti scritti come Marc Guggenheim (Flash e L’Uomo Ragno), la prima storia per il cinema interamente dedicata a Lanterna Verde sembra uscita dagli anni ‘90, quando il cinema dei supereroi era nella sua infanzia e si tendeva a ricalcare quanto più possibile il modus narrandi e le strutture archetipiche dei fumetti.
Lontano da ogni sviluppo moderno del cinesupereroismo Lanterna Verde racconta la storia di un “migliore”, tormentato da problemi ben poco quotidiani, a cui viene dato ancora di più e a cui si contrappone un “peggiore”, tormentato da problemi speculari, a cui viene levato anche quel poco che aveva. Come risultato il primo sconfiggerà i suoi pochi difetti, conquistando i trofei che ancora mancavano alla sua bacheca, mentre il secondo metterà in luce solo il suo lato peggiore, suscitando pena più che empatia per i suoi dolori. Un classico. Tuttavia risulta tutto ben poco coinvolgente nel decennio che va da ShrekMegamind (involontariamente citazionista a tal riguardo appare la macrocefalia del villain), in cui tutti gli eroi belli e imbattibili sono oggetto dello scherno da parte degli outsider, meno perfetti ma più autenticamente tormentati, e le donne non sono più motori immobili da salvare.
Eccezion fatta per qualche sporadica battuta Lanterna Verde non ha un briciolo di autoironia e nemmeno la fierezza intellettuale del ricercato Batman di Nolan, si accontenta di fare un racconto di “semplici superindividui” che dovrebbe far sognare se non arrivasse fuori tempo massimo.
Ed è un peccato perchè al timone c’è forse il miglior mestierante che il cinema d’azione statunitense possa permettersi: Martin Campbell, che al suo primo cinefumetto mostra di poter declinare la sua abilità con insperata maestria. Infatti, a dispetto dei suddetti anacronismi di scrittura, Lanterna Verde è dotato di ritmo, agilità e la necessaria asciuttezza, oltre ad un impianto visivo ed estetico fluido e ricercato, che riesce anche ad individuare il vero senso di “trucco” tridimensionale.
Stereoscopia a parte la terza dimensione di Lanterna Verde funziona bene e con gusto perchè Campbell ne comprende fino in fondo la natura di inganno visivo. Le sue immagini piatte che sembrano profonde sono tali non solo per la tecnologia stereo ma per come questa si appoggia alla profondità di campo e alla disposizione accuratamente prospettica degli oggetti e dei personaggi nelle inquadrature. Inganno per inganno, quello di Campbell parte dal set e dai punti di fuga per finire nello sdoppiamento in postproduzione. Il risultato è tecnicamente impeccabile, una splendida confezione moderna per una storia passata.

Gabriele Niola (www.mymovies.it)

dicembre 12, 2011 at 12:10 PM Lascia un commento

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