POVERE CREATURE! un film di Yorgos Lanthimos recensito per noi da Stefania De Zorzi

Una donna vestita in un sontuoso abito blu, sullo sfondo di un cielo tanto plumbeo da sembrare dipinto, viene ripresa prima di spalle, poi nella soggettiva vertiginosa dall’alto di un ponte un attimo prima di precipitarsi in acque turbinanti:  nella sequenza successiva in bianco e nero e in 4:3, all’interno di una villa la cinepresa segue dal basso le orme di un gentiluomo, avvicinandosi e alzando gradatamente il punto di vista. E’ l’incipit folgorante di “Povere Creature!”, film diretto dal regista Yorgos Lanthimos, vincitore dell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

La trama è liberamente ispirata all’omonimo romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray: a Londra il dottor Godwin Baxter/Willem Dafoe resuscita l’affascinante Victoria/Emma Stone dopo che quest’ultima si è buttata nel Tamigi, trapiantandole nel cranio il cervello del feto che la donna portava in grembo. Godwin battezza la giovane Bella, e sceglie come assistente per il difficile compito della sua educazione uno studente devoto, Max McCandles/Ramy Youssef, che non tarda ad innamorarsi della sua pupilla; di lei si invaghisce anche l’avvocato e dongiovanni Duncan Wedderburn/Mark Ruffalo, che convince Bella a seguirlo prima a Lisbona e successivamente verso altre mete, in un viaggio alla scoperta di se stessa e del mondo.

All’inizio si può credere di trovarsi in una variante del Frankenstein di Mary Shelley, laddove il dottore ha sembianze mostruose mentre la creatura mantiene intatta la propria bellezza, seppure con un cervello infantile e movenze da automa scoordinato. Ben presto però la storia evolve, e lo spettatore si rende conto di trovarsi in un universo alternativo: l’immaginario della novella gotica è solo il punto di partenza di una fiaba dark, in cui il rigore scientifico della protagonista, unito ad un’irrefrenabile impulso alla libertà e all’indipendenza, smaschera l’ipocrisia delle convenzioni perbeniste di un’epoca passata che riecheggia non poco il presente.  L’autonomia di pensiero e di azione di Bella si esprime in gran parte attraverso un’esplorazione gioiosa e priva di freni inibitori del sesso, con buona pace degli uomini che la circondano, siano essi animati dal senso di protezione paterna del Dr. Godwin, dal desiderio di una relazione stabile e accudente dell’allievo Max, o piuttosto dalle brame di conquista dell’avvocato suo amante.

Nello sguardo di Bella si riconosce quello lucido e straniante di Lanthimos, e la spinta verso una pragmatica e inesorabile realizzazione del sé attraverso l’uso del proprio corpo è così estrema da diventare a tratti quasi respingente.

Di contro Lanthimos sa anche permeare di umanità la figura del “dio” Godwin, con i suoi animali ibridi che non destano fastidio ma tenerezza e divertito stupore, creature di un demiurgo eccentrico che ha tentato di sublimare gli orrori dell’infanzia. Allo stesso modo il percorso di crescita interiore della protagonista prevede non solo i “furiosi sobbalzi”, ma anche il passaggio talvolta ironico e talvolta sofferente attraverso tutta la gamma delle emozioni umane, in un’avventura circolare che la riporta, seppure totalmente cambiata, al punto di partenza.

Visivamente il film è magnifico, per l’utilizzo di scenografie sorprendenti e fantasiose sospese tra le forme fluide e naturalistiche di Gaudì e le architetture organiche di Moebius, mentre ogni capitolo è scandito da un uso particolare sia della fotografia che del colore. I costumi non sono da meno: Bella spicca, oltre che per la sua acuta intelligenza, per le imponenti maniche a sbuffo abbinate a pantaloncini e stivaletti sexy, in dissonanza volutamente anacronistica con gli abiti in stile inizio Novecento degli altri personaggi.

L’uso dell’effetto distorcente del fish-eye è forse eccessivo, e il capitolo ambientato a Parigi ha una crudezza che rasenta la sfera del disturbante: tuttavia Lanthimos, già artista geniale in passato, non è mai stato così divertente e godibile, anche grazie ad un ritmo brioso e ai dialoghi irresistibili di Tony McNamara, che scansa miracolosamente i rischi della satira didascalica e del compiacimento grottesco.

Gli attori regalano interpretazioni magnifiche: sopra a tutti Emma Stone, con gli smisurati occhi verdi che trafiggono lo schermo, il corpo esile esposto nella nudità degli amplessi, e una forza di intelletto e di carattere travolgenti; meritano menzione anche un eccellente Mark Ruffalo, donnaiolo e maschio-alfa da strapazzo, e Willem Dafoe, che recita praticamente solo con lo sguardo dietro la maschera del volto sfigurato dalle cicatrici.

febbraio 5, 2024 at 1:54 PM Lascia un commento

One Life – regia di  James Hawes – recensione di Stefania De Zorzi

“One Life” segna l’esordio cinematografico (col botto) del regista televisivo James Hawes, che adatta per il grande schermo la biografia “If it’s not impossible…The life of Sir Nicholas Winton”.

Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria e l’invasione della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista, il giovane agente di borsa Nicholas Winton/Johnny Flynn si reca a Praga per motivi umanitari: con l’aiuto della madre Babette/Helena Bonham Carter e di un comitato per i rifugiati riesce a far espatriare diverse centinaia di bambini ebrei, ai quali procura documenti, visti e famiglie affidatarie in Gran Bretagna. Anziano e tormentato dai ricordi, negli anni Ottanta Winton/Anthony Hopkins porta l’album che custodisce fotografie dei bambini e articoli di giornale dell’epoca alla curatrice Betty Maxwell/Marthe Keller, affinché rimanga traccia di quei drammatici eventi: per una fortunata serie di circostanze la storia arriva in televisione, e per la prima volta viene resa nota al grande pubblico.

James Hawes restituisce il ritratto di un uomo “comune” quanto a origini e professione, che intraprende insieme a famigliari, amici e collaboratori altrettanto “normali”, una missione all’apparenza impossibile sotto molti aspetti: in primis quella di superare gli ostacoli posti dalla burocrazia inglese, ottusa e noncurante.

Winton si destreggia abilmente tra montagne di scartoffie (viene in mente il simpatico Bob Parr che ne “Gli incredibili” aiuta una vecchietta ad avere ragione delle trappole contrattuali dell’assicurazione), supera la diffidenza e guadagna la fiducia di coloro che vorrebbe salvare, coinvolge la stampa facendo leva sui migliori sentimenti della pubblica opinione e di tutti quelli che incontra sul suo cammino, mettendo in moto in breve tempo un’organizzazione straordinariamente efficiente a dispetto degli scarsi mezzi a disposizione.

Caso raro di questi tempi, il film mette in mostra le qualità di uomini e donne “normali”, privi di super-poteri o di abilità spionistiche: sia il giovane Winton che quello anziano sono caratterizzati da una forte empatia e sensibilità,  non hanno timore di piangere e di entusiasmarsi, mostrando la loro fragilità di fronte alla sofferenza e al dolore. L’interpretazione sia di Flynn che di Hopkins è misurata eppure intensa, una magnifica prova d’attore in tandem: siamo lontani anni luce dalla freddezza di tanto cinema d’azione, che rende stereotipati fin quasi all’astrazione personaggi e situazioni.

I bambini in scena escono dalla bidimensionalità delle piccole foto sull’album e dalle statistiche della storia, e diventano ognuno un campione di umanità in erba, fulcri di tragedia e di speranza: Hawes dirige con grazia, supportato da una sceneggiatura precisa che accumula dettagli sulle personalità e sulle relazioni familiari dei piccoli, e man mano che l’azione progredisce crea nello spettatore la sensazione di conoscerli uno ad uno, così come succede a Winton, in un meccanismo a orologeria che coinvolge e angoscia, perché si sa bene che non tutti potranno essere salvati.

Diverse scene si imprimono in maniera indelebile nella memoria: quella dell’incontro tra il rabbino e Winton, fra lui  e la famiglia Diamantova, la mancata partenza dell’ultimo treno, i dialoghi ironici fra il vecchio Winton e la moglie, solo per citarne alcune.

Sembra che tutto sia emozione nel film, ma questa è guidata dal gioco sapiente di Hawes, che alterna il passato remoto del 1938 a quello più recente degli anni Ottanta, in una contrapposizione fra gioventù ardente e senile malinconia, fra la tragedia della guerra e la rassicurante cialtroneria dello show televisivo.

Meritano menzione anche le belle scenografie e i costumi d’epoca, e una fotografia attenta, che usa luci e colori freddi per gli anni Trenta, mentre avvolge in toni caldi e tinte pastello gli Ottanta.

E’ un film bello e terribile, che racconta della salvezza di alcune centinaia di innocenti a fronte della strage di migliaia, in balìa di quella che Winton definisce la “lotteria” del caso. Se ne esce un po’ travolti, con le immagini dei bambini che perseguitano lo spettatore così come angosciarono in vita il protagonista: parzialmente consolatorio il finale, che concretizza il motto “Chi salva una vita, salva tutta l’umanità”, e le immagini di repertorio del vero Winton, che buca lo schermo con uno sguardo acuto e carico di umanità.

gennaio 15, 2024 at 1:50 PM 1 commento

IL RAGAZZO E L’AIRONE – di Hayao Miyazaki -recensione di Stefania De Zorzi

Hayao Miyazaki dirige e scrive la sceneggiatura del suo ultimo (in ordine cronologico, e forse in assoluto, ma non è mai detto) lungometraggio d’animazione: “Il ragazzo e l’airone”.

Il dodicenne Mahito subisce la tragica perdita della madre in un incendio a Tokyo durante la Seconda Guerra Mondiale; l’anno successivo il padre si trasferisce col figlio in campagna, presso la sorella della moglie scomparsa, Natsuko, con cui ha nel frattempo concepito un figlio. Oppresso dal dolore per la madre scomparsa, Mahito fatica ad accettare la nuova situazione famigliare, e trascorre il tempo esplorando i dintorni campestri della sua nuova dimora: finché la zia Natsuko scompare nel bosco, e nel corso della sua ricerca un airone cenerino fuori dal comune lo conduce ad una torre da cui il prozio è svanito misteriosamente molti anni prima. Nella torre Mahito varca insieme all’airone il portale per un altro mondo irto di insidie e ricco di meraviglie, che potrebbe celare la chiave per ritrovare la madre morta.

Lo spettatore ritrova volti familiari dai film precedenti di Miyazaki, simili eppure diversi: i parrocchetti giganti non sono caratterizzati dalla benevolenza di Totoro, ma da una stolida ferocia; viceversa le vecchie signore bitorzolute e rugose anziché streghe sono figure protettrici; il prozio a sua volta rammenta nella capigliatura e nei tratti il mago Howl invecchiato.

La natura, cui la cultura giapponese dedica particolare attenzione, è protagonista, fra cupi richiami mitologici, ironia fantasiosa e comico realismo: gli uccelli del mondo reale rilasciano escrementi in quantità al loro passaggio, mentre pellicani e parrocchetti dell’altro mondo divorano e uccidono, seppure per necessità, oppure hanno uno spirito ambiguo come l’airone, che lungi dall’essere un simbolo di grazia ed eleganza è il travestimento di un essere deforme e dispettoso.

Visivamente il film è un’opera d’arte: le fiamme dell’incendio dell’ospedale “bruciano” letteralmente sullo schermo con un’intensità drammatica e un dinamismo mai visti in un lungometraggio d’animazione, mentre sui fondali della campagna fiori e orti sono dipinti con pennellate impressioniste. Dalla torre, con gli arazzi iperrealisti in cui sembra di poter contare ogni filo, Mahito scivola in un altro mondo animato per buona parte in modo bi-dimensionale con un effetto distopico e straniante, a tratti affrescato in tinte di pura luce (l’ampio spazio delimitato da colonne che permette l’accesso al mondo del prozio). Lo spettatore si può divertire a trovare riferimenti illustri: da Magritte (il macigno sospeso), all’onda di Hokusai, o ancora ai metafisici (i solidi geometrici), in un caleidoscopio unico e originale di stili funzionali alla narrazione.

Miyazaki rievoca in questo anime, soprattutto nella parte dedicata alla visita dell’altro mondo, David Lynch: per le atmosfere oniriche più che magiche, il simbolismo denso e misterioso, l’andamento spiazzante della trama.

Malgrado i pregi, non è un film privo di difetti: la rappresentazione di una dimensione a metà fra il sogno e l’incubo, in cui sono condensati e stratificati significati più o meno nascosti, compromette talvolta il ritmo che risulta piuttosto lento, con scene giustapposte anziché consequenziali, e la comprensione dello spettatore.

Il titolo originale “E voi come vivrete?”, citazione dal libro (reale) che il protagonista scopre per caso come lascito della madre, è d’aiuto nel trovare una chiave di lettura: nella contrapposizione e riconciliazione fra vita e arte, passato, presente e futuro, equilibrio e conflitto, purezza e male, accettazione della morte e gioia di vivere.

Nel complesso naturalmente il film è da vedere: con la pazienza di chi non decodifica tutti i simboli e i risvolti della trama e probabilmente non ci riuscirà neppure a una visione successiva, ma sa lasciarsi avvolgere dal mistero, aiutato in questo dallo spirito giocoso e irriverente di Miyazaki che, con diabolica grandezza, permea personaggi e situazioni.

gennaio 8, 2024 at 1:02 PM Lascia un commento

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese – recensione di Stefania De Zorzi

Da sempre siamo abituati a vedere nei film western i nativi americani che attraversano a cavallo montagne e praterie, coi volti e i corpi dipinti coi colori di guerra, organizzati in villaggi di tende.“Killers of the Flower Moon”, l’ultimo film diretto e co-sceneggiato da Martin Scorsese, ribalta le convenzioni, mostrandoci agli inizi del Novecento il popolo Osage vivere fra gli agi in case lussuosamente arredate e viaggiare a bordo di comode automobili, servito da autisti e camerieri di pelle bianca, grazie alla ricchezza inaspettata garantita dai giacimenti petroliferi della riserva in cui è stato relegato.

Questo scenario di sereno imborghesimento viene funestato dalle azioni criminali di William Hale/Robert De Niro e del nipote Ernest Burkhart/Leonardo DiCaprio, che, a capo di una fitta rete di malviventi e di autorità conniventi, perpetrano numerosi omicidi fra gli Osage, allo scopo di impadronirsi di terreni e ricchezze. A dispetto di ciò, Ernest si innamora e sposa ricambiato Mollie/Lily Gladstone, benestante Osage purosangue, intraprendendo così una relazione che mette a dura prova i vincoli familiari da entrambe le parti. Dopo un lungo periodo di malefatte impunite interviene la neo-costituita FBI nei panni di Tom White/Jesse Plemons, circondato da un manipolo di agenti tutto d’un pezzo, con l’arduo compito di catturare sia tagliagole che filistei dall’aria per bene.

Il film vanta momenti belli e intensi: le sequenze iniziali, che in una mirabile sintesi di pochi minuti mostrano gli Osage trasformati da malinconici reietti in sorridenti proprietari terrieri e imprenditori abbigliati con i raffinati costumi tradizionali in un mondo alla rovescia di breve durata; la chiacchierata irriverente sul prato di Mollie con le sorelle, durante una festa; il matrimonio indiano dei due protagonisti, o ancora il colloquio rivelatore fra Ernest e Mollie. E infine la scena in cui, anziché deputare le didascalie di coda alla narrazione delle vicende dei personaggi dopo gli eventi del film, è uno speaker di radio-drammi che porge il microfono a Martin Scorsese in una breve apparizione cameo, a raccontare l’epilogo delle vite rappresentate nel corso del film.

Scorsese racconta i crimini efferati compiuti ai danni degli Osage con lo sguardo apparentemente distaccato di “Quei bravi ragazzi”, in cui il giudizio morale è lasciato allo spettatore, e l’empatia è riservata allo sguardo enigmatico e velato di malinconia di Mollie. A tratti l’elenco interminabile di omicidi, il genocidio frammentato di una guerra subdola condotta in modo lento e inesorabile, così come l’agonia dilatata nel tempo della protagonista durante la malattia, rasentano i limiti del tollerabile. C’è da pensare che questo tempo lungo del male e della sofferenza sia voluto: così che il riscatto della seconda parte, l’intervento salvifico degli agenti dell’FBI e la presa di coscienza di Ernest sfociano in un effetto catartico, in cui finalmente i malvagi vengono messi alle strette, e la strage degli innocenti si interrompe.

Gli attori, tutti magnifici, aiutano non poco a sopportare la durata imponente di quasi tre ore e mezza: primo fra tutti Robert De Niro, che proietta attorno a sé un’ombra diabolica e untuosa, in una delle migliori interpretazioni da “villain” viste sul grande schermo. Non gli sono da meno l’intensa Lily Gladstone, bellezza carismatica estranea ai canoni classici e alle convenzioni, e naturalmente il poliedrico Leonardo DiCaprio, imbruttito per gran parte del film da una smorfia stolida, che si ammorbidisce alla fine nell’espressione di una parziale redenzione.

E’ un film impegnativo, con qualche ridondanza e momenti esasperanti: comunque da vedere, oltre che per il ritratto di una sconvolgente storia vera, anche per lo stile talentuoso ed elegante di Scorsese, che alterna senza soluzione di continuità il variopinto mondo dei nativi al bianco e nero delle foto d’epoca, i campi lunghi della prateria fiorita (da cui il titolo del libro omonimo di David Grann a cui è ispirato il soggetto) e delle fattorie isolate in mezzo al nulla, ai primi piani sui volti immensi degli Osage, passando anche per la strage di Tulsa. 

Un antidoto potente ai meccanismi ripetitivi dell’A.I.

ottobre 23, 2023 at 9:54 am 1 commento

OPPENHEIMER – un film di Christopher Nolan recensione di Stefania De Zorzi

Il mondo è in fiamme, luci che potrebbero essere particelle o astri sfrecciano brillanti in uno spazio oscuro: è l’incipit reso ancor più spettacolare dal formato IMAX 70 mm. del nuovo film diretto da Christopher Nolan, “Oppenheimer”.

J.Robert Oppenheimer/Cillian Murphy, genio della fisica, viene chiamato dal colonnello Leslie Groves/Matt Damon a dirigere il Progetto Manhattan durante la Seconda Guerra Mondiale: insieme a un gruppo di scienziati di fama internazionale, fra cui Edward Teller/Benny Safdie, Ernest Lawrence/Josh Hartnett, Vannevar Bush/Matthew Modine, porta a compimento la costruzione della prima bomba atomica. Dopo diversi anni dalla fine del conflitto Oppenheimer è sottoposto a giudizio col pretesto dei suoi contatti familiari e di gioventù con membri del partito comunista, e gli viene tolto il nulla osta per la sicurezza; a distanza di tempo vengono tardivamente riconosciute la sua integrità e grandezza, a discapito di invidie e gelosie nelle alte sfere militari.

Nolan dirige un film dall’andamento non lineare, sia per la commistione di diversi tempi/luoghi, che per la giustapposizione di scene che si susseguono ad un ritmo incalzante, in analogia ai granuli e alle onde che, secondo la fisica quantistica, costituiscono la materia al suo livello più profondo. Come sempre nei film di Nolan, la cifra stilistica è molto forte: l’uso del formato IMAX 70mm. consente una visione immersiva e iper-realistica dai colori più vividi e dai dettagli più definiti rispetto alla tecnologia digitale standard, evidenti nei primi piani dei protagonisti (le iridi blu di Cillian Murphy hanno una consistenza quasi tridimensionale), così come nella polverosità del deserto di Los Alamos, o nelle immagini fantasmagoriche del mondo “quantistico” che ossessionano la mente dello scienziato.

Lo scoppio della prima atomica sperimentale è filmata senza l’aiuto di CGI, riprendendo da vicino una vera esplosione, con un effetto documentaristico che è l’opposto dell’artificialità digitale. Nolan gioca anche con l’uso del bianco e nero per le scene in cui è protagonista l’ammiraglio Strauss/Robert Downey Jr., come a significare la prospettiva squallida di una mente opaca a confronto con i colori brillanti delle scene in cui è presente Oppenheimer.

Il film non è solo una questione di stile: i dialoghi scoppiettanti fra gli scienziati, ognuno col suo personale apporto di genio, sia esso in campo matematico, fisico, chimico, ingegneristico, nonché con le proprie umane miserie, fra egocentrismo, testardaggine e gelosie non solo professionali, trasmettono l’eccitazione del pensiero creativo, in un gioco di particelle che si incontrano e si scontrano. Il risultato storico purtroppo è l’“Oppenheimer’s deadly toy” cantato da Sting, ma anche la meraviglia del genio umano, che non nasce e si sviluppa solitario, ma prospera in uno spirito di squadra che fatica a conciliarsi sia con le esigenze di segretezza dei militari, che con l’ottusa demagogia della politica e del potere.

Oltre allo scienziato c’è anche l’uomo: talvolta “disumano” nella sua ossessione per la ricerca, sul cui altare sacrifica la cura dei figli, o donnaiolo impenitente a discapito di chi ha la sventura di amarlo profondamente; ma anche leale con gli amici e coerente con le proprie convinzioni, con buona pace delle conseguenze drammatiche su reputazione e vita privata.

Il pathos biografico è garantito oltre che dalla scrittura anche dal cast eccezionale: insieme a Cillian Murphy, ossessionato, impudente, moralmente ambiguo, meritano menzione una straordinaria Emily Blunt nei panni della moglie Kitty, Robert Downey Jr volutamente imbruttito, Matt Damon comandante solido e pragmatico, Florence Pugh amante sensuale.

Malgrado i tanti pregi, non è un film perfetto: le tre ore di durata un po’ pesano sullo spettatore per l’eccesso di informazioni e di personaggi, per le lungaggini nel processo a Oppenheimer, e per la prolungata narrazione frammentaria, in un gioco a incastri in cui Nolan tende da qualche tempo a strafare.

Rimane comunque un’opera imperdibile, innovativa e ricca di contenuti, da vedere al cinema a costo di qualche sacrificio logistico nelle tre sale italiane in cui è possibile assistere alle proiezioni in formato 70 mm. (anche se non Imax).

agosto 31, 2023 at 12:41 PM 1 commento

Spider-Man: Across the Spider-Verse recensione di Stefania De Zorzi.

“Spider-Man: Across the Spider-Verse” è un viaggio rivoluzionario da cui si esce ammirati e un po’ storditi, consci di aver assistito ad un evento di rottura forse ancor più radicale dell’episodio precedente rispetto ai canoni del classico lungometraggio animato. 

L’adolescente Miles Morales ritrova l’amata Gwen Stacy in fuga dal padre poliziotto, e deve nel contempo affrontare la Macchia, scienziato che Miles ha involontariamente condannato alla deprivazione del proprio corpo, trasformandolo in un portale multi-dimensionale vivente. Passando attraverso Mumbattan, megalopoli ibrido tra Mumbai e Manhattan, Miles salva due persone ma provoca un grave incidente, per poi approdare sul Quartier Generale Terra 928, dove apprende da Miguel O’Hara / Spiderman 2099 una verità sconvolgente sui meccanismi che reggono il multiverso. 

I registi Joaquim dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson, insieme agli sceneggiatori Phil Lord, Christopher Miller e David Callaham continuano il percorso innovativo già intrapreso dal precedente “Spider-Man: un Nuovo Universo”. Il multiverso è grafico, laddove ogni Terra è resa in uno stile che ripropone le tecniche di stampa e la cifra dei disegnatori storici del fumetto: dallo spesso retino tipico degli anni Sessanta/Settanta, alla qualità pittorica del mondo di Gwen Stacy in cui i colori si stemperano come in un acquerello sottolineando le emozioni dei protagonisti, passando per l’accesa psichedelia dei tunnel dimensionali, fino alla nitidezza tecnologica di Terra 928. Non mancano poi gli inserti citazionisti con attori in carne ed ossa, e personaggi “ritagliati” con tecniche differenti (come l’Avvoltoio, nella bella scena iniziale), che spiazzano e coinvolgono in un divertente gioco di rimandi.

Il multiverso include molteplicità di etnie, culture, generi e specie, con uno Spider-Man T-Rex e un irresistibile Spider-Punk, un avvenente supereroe indiano (che non è stato morso da un ragno), una determinata Spider-Woman incinta, e per finire uno Spider-Man 2099 vampiro e privo di senso dell’umorismo. 

Le sorprese non finiscono qui: perché la rivoluzione è anche quella contro il multiverso determinista dove le cose “devono” succedere, condannando gli eroi alla tragedia e al lutto familiare.

La regia è vertiginosa, con tuffi immersivi da una dimensione all’altra in un caleidoscopio di colori e angolazioni ritmate da un rap intenso e spietato, che in due ore e venti minuti di durata lasciano lo spettatore ammirato e quasi stremato. Il finale, con la sua svolta sorprendente nella trama, non è tale, e bisognerà attendere il 2024 per l’episodio conclusivo: ma di fronte a un tale sfoggio di genio e di coraggio irriverente, la serialita’ è un peccato veniale. 

giugno 5, 2023 at 10:09 am 1 commento

Gli spiriti dell’isola regia Martin McDonagh recensione di Stefania de Zorzi

Martin McDonagh è regista di film attraversati da un forte senso dell’assurdo, declinato in forme di volta in volta più ironiche (In Bruges, 7 Psicopatici) o drammatiche (Tre manifesti a Ebbing, Missouri). 

Gli spiriti dell’isola non fa eccezione: è il primo aprile 1923, e sull’isola immaginaria di Inisherin, al largo della coste occidentali dell’Irlanda, l’anziano musicista Colm/Brendan Gleeson dichiara improvvisamente la sua insofferenza nei confronti di Pádraic/Colin Farrell, che lo annoia con le sue conversazioni da uomo semplice. Quest’ultimo non si rassegna alle ripetute dichiarazioni di inimicizia dell’ex compare di bevute e di chiacchierate al pub, e cerca in ogni modo di recuperare il rapporto, suscitando una serie di reazioni a catena violente e imprevedibili. Ne sono testimoni la sorella di Padráic, Siobhán/Kerry Condon, e il “ matto” del paese Dominic/Barry Keoghan, ragazzo abusato dal padre poliziotto Peadar/Gary Lydon.

L’inizio è semplice e folgorante, e condensa in pochi minuti le migliori caratteristiche del film: i dialoghi ritmati con la circolarità e il lirismo di una ballata, la fotografia in esterni che illumina di luce livida il verde dei prati e il grigio blu del mare in contrasto con la penombra degli interni, e infine la presenza rassicurante degli animali, che accompagnano e vegliano per tutto il tempo i protagonisti.

In lontananza si odono gli echi della guerra civile d’Irlanda: l’insensata violenza delle auto-mutilazioni minacciate da Colm se Pádraic non desisterà dal disturbarlo può facilmente essere presa a simbolo della follia bellica.

Tuttavia rimane qualcosa di volutamente irrisolto nella fiaba dark di McDonagh, e non potrebbe essere altrimenti: per non correre il rischio di un simbolismo didascalico, e forse anche per accentuare l’assurdo dell’esistenza umana, in cui non a tutto si può attribuire un significato.

In un dialogo indimenticabile l’arte si contrappone alla gentilezza, e il fatto che la prima perduri nel tempo e nella memoria al contrario della seconda, non è di conforto; così come non lo è la negligenza della religione verso le anime degli animali che ci sono stati cari, mentre è considerata peccato l’offesa ad un’autorità gretta e brutale.

Le scene alla finestra rivestono un’importanza particolare: sia come tentativo di entrare nel mondo dell’altro (tutte le volte che Pádraic cerca di attirare l’attenzione di Colm), sia come curiosità benevola da parte di un’asinella, di una mucca o di un cavallo, che si affacciano dal davanzale come dall’interno di un quadro, e talvolta entrano a recare consolazione ad un essere umano afflitto o turbato.

L’interpretazione di tutti gli attori è magnifica, e la pioggia di candidature agli Oscar è ben fondata; merita una menzione speciale anche la colonna sonora di Carter Burwell, articolata fra il folk vivace di violini e tamburi al pub, le note stranianti a passeggio per l’isola, e le arie d’opera che fuoriescono dal grammofono di Colm.

Il bel titolo originale “The Banshees of Inisherin” sottolinea l’aspetto mitologico della tradizione irlandese, incarnato nella figura sinistra di Mrs McCormick/Sheila Flitton, profetessa di sventure e cattivi pensieri, che Pádraic cerca invano di evitare durante le sue lunghe camminate.

E’ un film bello ma arduo, sia per l’andamento lento e a spirale di dialoghi e situazioni, che per il raccapriccio suscitato da certe scene in contrasto con l’atmosfera altrimenti sospesa e mitica, in cui una vena sottile di humour nero evita un eccessivo appesantimento del dramma. Senz’altro da vedere, evitando la rigidità della logica lineare, e lasciando decantare con calma le suggestioni e i molteplici spunti di riflessione.

febbraio 20, 2023 at 1:51 PM 1 commento

BABYLON “Damien Chazelle” recensione di Stefania De Zorzi

E’ preferibile che il regista rimanga una presenza invisibile dietro le quinte, o che invece imprima la sua cifra stilistica in ogni sequenza? Damien Chazelle appartiene senza ombra di dubbio alla seconda categoria: “Babylon”, da lui diretto e sceneggiato, è l’espressione potente in ogni inquadratura del suo virtuosismo, non scevro di un certo auto-compiacimento.

La storia ha inizio a Bel Air nel 1926: Manny Torres/Diego Calva è un tuttofare che svolge lavori improbabili e talvolta ai limiti della legalità per il magnate del cinema Don Wallach/Jeff Garlin. A una festa conosce e si innamora perdutamente della bellissima Nellie LaRoy/Margot Robbie, aspirante attrice dedita ad alcool, droghe e gioco d’azzardo; poco dopo Torres diventa l’assistente del famoso attore Jack Conrad/Brad Pitt, divo del cinema muto. Nel 1927 viene proiettato nelle sale cinematografiche “Il cantante di jazz”, che segna l’avvento del sonoro: è la fine di un’epoca e l’inizio della fortuna di Torres, che nel frattempo non perde di vista Nellie, fragile vittima predestinata dello stritolante sistema hollywoodiano.

Chazelle pone il mondo del cinema sotto una lente deformante in cui il grottesco raggiunge vertici disturbanti: dalla sfrenata festa iniziale, al set del film in costume in cui si può morire davvero, passando per l’incubo infinito delle ripetizioni della stessa scena fra le mille difficoltà d’esordio del sonoro, fino alla perversa discesa agli inferi col gangster James McKay/Tobey Maguire.

Chazelle non ha paura di mostrare ciò che di solito viene omesso perché troppo ripugnante per i sensi o per la morale, oltre i limiti della pornografia e del trash: lo fa con i suoi talentuosi piani sequenza, le soggettive concitate, i giochi di luce in cui i luoghi e gli oggetti emergono gradualmente dal buio, o in cui viceversa i personaggi vengono avvolti dalle tenebre in maniera sinistra (di rilievo la fotografia di Linus Sandgren, collaboratore pressoché fisso del regista). Al tempo stesso evita il rischio della disumanizzazione seguendo con malinconica comprensione il declino dell’ex-divo Jack Konrad e facendo proprio lo sguardo appassionato di Torres per Nellie, in cui parte del fascino, oltre alla prorompente bellezza, è conferito da una vena di pazzia che le fa affrontare con un candore travolgente le peggiori situazioni, come una sorta di Marilyn Monroe ante-litteram.

Si ride spesso e quasi vergognandosi di farlo, lontani anni luce dal “politically correct”: se il mondo degli anni Venti è animato da riti orgiastici e caratterizzato da una palese indifferenza per il valore della vita umana e animale, la moralità degli anni Trenta è solo di facciata, e si nutre del disprezzo e dei pregiudizi delle elite intellettuali per i ceti inferiori (come nella memorabile scena della presentazione alla buona società di Nellie), così come per altre razze ed etnie (il musicista jazz Sidney Palmer/Jovan Adepo costretto a tingersi la faccia di nero, o Torres che si finge spagnolo anziché messicano).

La colonna sonora di Justin Hurwitz è la spina dorsale del film: all’inizio strepitante e invasiva, come i rumorosi set del cinema muto; poi più discreta per le nuove necessità del sonoro, e anche più modulata, elegante, a tratti naturalmente imprevedibile, com’è nella natura del jazz.

Fin qui tutto molto bello: il limite è quello di una rappresentazione che funziona per accostamento di sequenze, seppure girate con maestria, trascurando uno sviluppo vero e proprio della trama e dei personaggi (con l’eccezione di Konrad/Pitt, forse il più riuscito), e dove gli eccessi delle situazioni grottesche e della recitazione, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione di Nellie da parte di Margot Robbie, rischia a lungo andare di risultare indigesto.

A prescindere dalle sue imperfezioni, il film è assolutamente da vedere: senza temere la durata di oltre tre ore, perché il ritmo è incalzante e i dialoghi brillanti; pronti però a ricevere qualche pugno nello stomaco nella visione da incubo lisergico di Chazelle, in cui l’unico conforto morale è l’immortalità degli attori sulla pellicola e il senso terapeutico della settima arte per lo spettatore.

gennaio 30, 2023 at 11:27 am 1 commento

Avatar – La via dell’acqua di James Cameron – recensione di Stefania De Zorzi

James Cameron è da sempre regista di kolossal cinematografici con l’intento dichiarato di stupire lo spettatore: a livello visivo l’impresa gli riesce anche con il suo ultimo film, “Avatar – La via dell’acqua”, sequel uscito a 13 anni di distanza dal celeberrimo capitolo precedente.

L’ex marine Jake Sully/Sam Worthington vive felice ormai da tempo sul pianeta Pandora fra i Na’vi delle foreste, insieme alla moglie Neytiri/Zoe Saldana, ai suoi tre figli Neteyam/Jamie Flatters, Lo’ak/Britain Dalton, Tuk/Trinity Bliss e alla figlia adottiva Kiri, misteriosamente concepita dall’Avatar della dottoressa Grace (Sigourney Weaver interpreta grazie al motion capture entrambi i ruoli), amici del ragazzo umano “Spider”/Jack Champion. L’arrivo del redivivo colonnello Miles Quaritch/Stephen Lang e del suo gruppo di spietati combattenti in cerca di vendetta, obbliga la famiglia a trasferirsi presso il clan di Metkayina, capeggiato dal fiero Tonowari/Cliff Curtis e dalla diffidente moglie di lui, Ronal/Kate Winslet. Le difficoltà di adattamento nel nuovo ambiente non sono poche e mettono a dura prova sia la coesione della famiglia Sully, sia la convivenza fra Na’vi dalla provenienza e dalla cultura diversa.

Se il primo “Avatar” è lo spunto iniziale per trama, personaggi e ambientazioni dell’episodio successivo, Cameron vira ben presto la storia verso l’esplorazione del mondo sfacciatamente simil-polinesiano dei Na’vi dei mari. Il fondale marino fornisce una prospettiva capovolta rispetto al mondo delle foreste, e ripete con una specularità insistita il mondo di sopra fra alberi-anima e pesci lucciola, facendo sfoggio di una lussureggiante flora subacquea e di una fauna variegata che comprende mostri pseudo-preistorici e gli interessanti tulkun, sorta di balene pacifiste intelligenti. 

Il film è magnifico a livello visivo, anche se la digitalizzazione estrema è al limite con la percezione artificiosa del lungometraggio animato o del videogioco ad alta definizione, mentre il motion capture, per quanto sofisticato,impedisce almeno in parte di godere della mimica degli attori in carne ed ossa.

Cameron orchestra uno spettacolo grandioso ed eccessivo, in cui mescola rimandi a “Moby Dick” e in maniera auto-referenziale a “The Abyss” e a “Titanic”: le sequenze nella nave capovolta soffrono di una certa ridondanza, anche se la storia scorre via piacevolmente fin quasi verso la fine a dispetto dei 190 minuti di durata, animata da un buon ritmo e dalla maestria tecnica del regista, che immerge letteralmente lo spettatore in galoppate anfibie o in inseguimenti subacquei mozzafiato.

Trama e sceneggiatura sono un po’ sfilacciate, meno compatte rispetto all’Avatar precedente, mentre risulta fastidiosa l’etica disneyana che smussa la cattiveria del colonnello Quaritch e ricompone in maniera prevedibile i conflitti familiari e sociali fra i Na’vi. Cameron salva il pathos della parabola ecologista grazie alla sua capacità di tratteggiare adolescenti teneri e un po’ scapestrati (sul modello di Leonardo di Caprio in Titanic), giovani eroi dall’aura vagamente tragica che rubano la scena agli adulti impavidi, saggi e abbastanza convenzionali, con l’eccezione delle figure femminili di Ronal e di Neytiri, focose e ben riuscite.

Chiudendo un occhio sulle imperfezioni, il film è imperdibile al cinema per lo splendore artistico delle ambientazioni, e per tutti i fan della fantascienza classica avventurosa.

dicembre 20, 2022 at 8:19 PM 1 commento

Omicidio nel West End di – Tom George recensione di Stefania De Zorzi

“Omicidio nel West End” è ambientato a Londra, nel 1953: a teatro “Trappola per topi” di Agatha Christie ha superato la sua centesima replica, e si pensa di farne un film. I sogni di successo si infrangono con l’assassinio del regista Leo Köpernick/Adrien Brody, su cui viene chiamato a indagare l’ispettore Stoppard/Sam Rockwell, coadiuvato dall’agente Stalker/Saoirse Ronan: i sospetti si concentrano sui membri della troupe teatrale e su coloro che vi gravitano attorno per l’adattamento cinematografico, dallo sceneggiatore di dubbio valore Mervyn Cocker-Norris/David Oyelowo al produttore fedifrago John Woolf/Reece Shearsmith.

Tom George, al suo esordio cinematografico, dirige un giallo-rosa che gioca esplicitamente con le convenzioni del giallo classico tutto orchestrato sulla scoperta dell’omicida misterioso, compresa la consuetudine narrativa di Agatha Christie di radunare i presunti colpevoli in una stanza, prima di svelare il nome dell’assassino. L’equilibrio nel gioco meta-testuale tra film e spettatore non è facile da raggiungere: la voce narrante di Köpernick è simpatica ma alla lunga risulta ridondante nella sequenza iniziale, così come un certo senso di artificiosità diffusa, peraltro voluto, rischia di disperdere il pathos della trama “gialla” e delle umane vicende. Meno male che il cast è ben selezionato: sia per i due protagonisti d’eccezione, Sam Rockwell e Saoirse Ronan, che incarnano dietro ingenuità e goffaggini un’umanità dal passato dolente, capace di affrontare le difficoltà dell’Inghilterra del dopoguerra con garbo ed ironia, sia per i comprimari azzeccati, dall’impetuoso Richard Attenborough/Harris Dickinson, all’impresaria dal fascino ambiguo Petula Spencer/Ruth Wilson, fino ai già citati Oyelowo e Shearsmith.

Va dato merito anche allo sceneggiatore Mark Chapell per la scrittura vivace ed arguta di dialoghi e situazioni: gli scambi di battute dell’ingenua e tenace novellina Stalker, a confronto da un lato con i personaggi narcisisti e cialtroneschi del jet-set, dall’altro con il suo mentore Stoppard, investigatore esperto, sebbene alcolista e disilluso, sono fra i momenti migliori del film. 

Una menzione speciale va anche alla bella scenografia d’epoca: il salone della polizia con le scrivanie disposte in file ordinate, gli interni lussuosi o kitsch delle suite d’hotel, le auto come magnifiche scatole di sardine dai colori pop che sfrecciano sulla neve farinosa con la consistenza irreale di una scena teatrale o di un sogno, riecheggiano piacevolmente lo stile ludico-onirico di Wes Anderson.

Nel complesso il film scorre via bene, e lo spettatore si può divertire a scovare rimandi e citazioni dal ricco microcosmo di Agatha Christie, inseriti a guisa di Easter Egg in scenografie e battute (il titolo stesso in originale “See how they run”, richiama la filastrocca dei tre topolini ciechi, riferimento sinistro in “Trappola per topi”), laddove Agatha Christie stessa viene de-mistificata in maniera sorprendente nelle sequenze finali.

dicembre 4, 2022 at 11:47 am 1 commento

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