Archive for settembre, 2013

NO i giorni dell’arcobaleno

La ricostruzione di come si arrivò alla caduta del regime di Pinochet in Cile
Giancarlo Zappoli
Locandina No - I giorni dell'arcobaleno

1988. Il dittatore cileno Augusto Pinochet è costretto a cedere alle pressioni internazionali e a sottoporre a referendum popolare il proprio incarico di Presidente (ottenuto grazie al colpo di stato contro il governo democraticamente eletto e guidato da Salvador Allende). I cileni debbono decidere se affidargli o meno altri 8 anni di potere. Per la prima volta da anni anche i partiti di opposizione hanno accesso quotidiano al mezzo televisivo in uno spazio della durata di 15 minuti. Pur nella convinzione di avere scarse probabilità di successo il fronte del NO si mobilita e affida la campagna a un giovane pubblicitario anticonformista: René Saavedra.
Pablo Larrain, che il pubblico italiano conosce per i suoi precedenti Tony Manero e Post Mortem, affronta in modo diretto una delle svolte nodali della storia cilena recente. L’aggettivo è quanto mai appropriato perché la scelta radicale di utilizzare una telecamera dell’epoca offre al film una dimensione del tutto insolita. Il passaggio dal materiale di repertorio (dichiarazioni di Pinochet e cerimonie che lo vedono presente così come interventi dei rappresentanti dell’opposizione dell’epoca) alla ricostruzione cinematografica diviene così inavvertibile. Il pubblico in sala si trova nella situazione di chi sta compiendo una full immersion nel passato.
Tutto ciò all’interno di una ricostruzione che mostra, attraverso il personaggio di Saavedra, come la repressione fosse stata forte e come il regime fosse convinto che fosse sufficiente accusare qualsiasi avversario di ‘comunismo’ per poter vincere. Non manca però anche di sottolineare come tra i sostenitori del NO non fossero pochi quelli che non avevano compreso quanto fosse indispensabile impostare una campagna di comunicazione che andasse oltre la riproposizione delle pur gravissime colpe del dittatore per approdare a una proposta che parlasse di vita, di gioia, di speranza nel futuro e non di morte. E’ in questo ambito che il personaggio impersonato con grande understatement da Gael Garcia Bernal si trova a muoversi consapevole, inoltre, della difficoltà di contribuire alla riuscita di un fondamentale cambiamento del proprio Paese partendo dalle proprie basi di eccellente imbonitore. Pronto, una volta ottenuto l’esito sperato, a tornare a promuovere telenovelas.

 

settembre 28, 2013 at 9:52 am Lascia un commento

LA SCELTA DI BARBARA

Locandina La scelta di Barbara

Estate 1980. A causa di una richiesta di visto di uscita dalla Germania Est Barbara, una dottoressa, viene trasferita da Berlino in un ospedale di campagna. Il suo fidanzato Jörg, che vive all’Ovest sta pianificando la sua fuga. Barbara svolge con scrupolo il suo lavoro di chirurgo pediatra ma si tiene a distanza dai colleghi che pensa di dover frequentare ancora per poco tempo. Il primario Andre è però interessato a lei e non solo professionalmente. Man mano che il giorno della fuga si avvicina la situazione per Barbara, tenuta sotto stretto controllo dalla Stasi (la polizia politica) si complica.
Il cinema tedesco ha ovviamente ancora molto da raccontare sui decenni in cui la Germania era divisa in due e all’Est il controllo del Partito comunista era soffocante. Christian Petzold affronta il tema con un punto di vista estetico innovativo perché ritrae la vita sotto la dittatura con colori caldi rifuggendo dallo stereotipo abusato di una luce livida come la situazione psicologica dei personaggi. L’originalità però si arresta a questo punto perché ogni situazione si fa prevedibile così come un finale in cui le concomitanze diventano degne di un romanzo d’appendice appesantisce quanto visto sino a quel punto. L’occasione di descrivere un sentimento che nasce e si sviluppa progressivamente finendo con il mettere in secondo piano il desiderio di libertà viene sprecata non per colpa degli attori che sanno intercettare con abilità lo stato di tensione diffusa che pervadeva le vite anche di chi si trovava in una posizione elevata come quella del medico. È la sceneggiatura, scritta dallo stesso Petzold, che mostra come talvolta i plot di base possano essere simili ma gli esiti si manifestino come profondamente diversi. Perché il regista dichiara di avere avuto come fonte di ispirazione primaria Acque del Suddi Howard Hawks con Humphrey Bogart e Lauren Bacall. Purtroppo il confronto con quel classico del cinema si rivela perdente perché la scrittura resta in superficie e alla fine si ha l’impressione di un discreto film per la tv.

Giancarlo Zappoli   http://www.mymovies.it/

settembre 27, 2013 at 9:42 am Lascia un commento

COME UN TUONO

COMUNTULuke è un pilota di motociclette, impiegato in uno spettacolo ambulante. Dovrebbe partire al seguito del carrozzone per una nuova meta, ma scopre di avere un figlio, Jason, nato da una breve relazione con Romina, una ragazza del posto. Resta, dunque, nella provincia dello stato di New York, per provvedere alla sua nuova famiglia e impedire che suo figlio cresca senza un padre, come è accaduto a lui. Le rapine in banche e le fughe in moto sono il metodo più veloce per procurarsi tanti soldi e in fretta, ma “chi corre come un fulmine, si schianta come un tuono”, ed è così che la folle corsa di Luke si arresta davanti alla recluta di polizia Avery Cross, anch’egli padre da poco. Quindici anni dopo, Jason e il figlio di Avery stringono amicizia al liceo, ma il passato che li lega riaffiora e la vecchia violenza chiama nuova violenza.
Il talento di Derek Cianfrance, alla boa del terzo film, è un talento evidente, tanto nell’uso della macchina da presa quanto, e soprattutto, nell’abilità narrativa. Mentre noi scopriamo lui, anche lui sembra scoprire se stesso, misurandosi in toni e registri diversi. Con 
Blue Valentine aveva raccontato meglio di chiunque altro, recentemente, la straordinaria forza sentimentale del quotidiano, la potenza di tuono di ciò che torna, mediato e deformato dal filtro del ricordo, dell’amore quando l’amore non vince più sul resto. Con Come un tuono allarga il campo e opta per una narrazione forte, che abbraccia più personaggi e più generazioni. Quasi il primo fosse un racconto, perfetto e insuperato, e il secondo un romanzo, la cui mole e la cui impalcatura narrativa, rigida e calcolata, finiscono per schiacciare a tratti emozione e freschezza.
C’è infatti un determinismo buono – drammaturgicamente parlando -, che è quello che pone i personaggi di fronte a delle scelte che hanno sempre a che vedere con la replica o il rifiuto dell’eredità paterna, e porta il film in territori molto interessanti; ma c’è anche un determinismo più rigido, secondo cui le ferite non possono rimarginarsi ma solo tornare a sanguinare, che concorre efficacemente alla dimensione del pathos ma ruba al film apertura e verità. Sono scelte narrative fatte con la scure, non con mano leggera, nelle quali si può includere anche l’idea rigorosamente speculare che un uomo corrotto generi un figlio dal cuore puro e un uomo che ha fatto della propria vita una lotta alla corruzione, un figlio solo e oscuramente arrabbiato con se stesso e col mondo.
Si soffre dunque la mancanza della potente delicatezza di Blue Valentine, ma si resta ammirati dalla circolarità e dalla coerenza con la quale Cianfrance e i suoi cosceneggiatori hanno inscenato questa persecuzione del destino ai danni di quattro esseri umani, tanto che la miglior metafora del film è nel suo inizio: in quel “globo della morte” dentro il quale nessuno è agile e sicuro quanto Luke, ma che è pur sempre una gabbia, come quella dell’estrazione sociale, come e soprattutto quella del carattere.                                                                                                                                                                                                                   Marianna Cappi    http://www.mymovies.it/

settembre 25, 2013 at 7:15 PM Lascia un commento

Joseph Arthur -The Ballad Of Boogie Christ –

Joseph Arthur scrive canzoni da quando aveva tredici anni, da allora ne ha fatta molta di strada essendo oggi considerato  da gli stessi precedessori un vero talento del più classico songwriting americano. Ne è passato di tempo dal giorno in cui trovò sulla sua segreteria telefonica questo messaggio:  “Sono Peter Gabriel. Penso che tu scriva grandi canzoni. Vorrei mettermi in contatto con te”. Con il nuovo album, ed il suo ritorno alla Real World Record Joseph Arthur firma un altro lavoro importante.

Joseph Arthur scrive canzoni da quando aveva tredici anni, da allora ne ha fatta molta di strada essendo oggi considerato
da gli stessi precedessori un vero talento del più classico songwriting americano.
Ne è passato di tempo dal giorno in cui trovò sulla sua segreteria telefonica questo messaggio:
“Sono Peter Gabriel. Penso che tu scriva grandi canzoni. Vorrei mettermi in contatto con te”.
Con il nuovo album, ed il suo ritorno alla Real World Record Joseph Arthur firma un altro lavoro
importante.

 

 

settembre 23, 2013 at 10:17 am Lascia un commento

BLUE VALENTINE

 
Gosling e la Williams si confermano tra i migliori interpreti del momento
                 Marianna Cappi
Locandina Blue Valentine

Dean e Cindy si sono incontrati per caso, si sono amati tanto, hanno fatto una famiglia felice ma ora l’amore li ha lasciati e loro stanno per fare altrettanto, l’uno con l’altro. Mentre si concedono forse l’ultima notte insieme, nella “camera del futuro” di un motel a ore, ricordano quel che c’è stato, quello che hanno avuto e che non c’è più.
Dopo un eccellente debutto al Sundance e anni di documentarismo, Derek Cianfrance riesce finalmente a portare alla luce Blue Valentine , che aveva iniziato a scrivere già nel lontano 1998. È il caso di dirlo: meglio tardi che mai, perché questo piccolo film di grandi attori ha una rara grazia che lo guida da cima a fondo, un ventre di sentimenti autentici, nello spettro noto che va dall’amore alla disperazione, e un finale toccante. La barzelletta al centro del film, che Cindy racconta con una straordinaria finta naturalezza, deciderà del pubblico: o dentro o fuori, quello è il tono del film e del personaggio di lei in particolare, meno “simpatico” del suo partner ma vero burattinaio dell’azione.
Ryan Gosling, col suo fascino e la sua rabbia, con l’animo buono e il destino crudele, e Michelle Williams, con la sua interpretazione trattenuta, tirata perché l’esasperazione deflagri credibile e condivisibile quando è il suo momento, sono due tra gli attori migliori del momento e qui lo dimostrano, attraverso le trasformazioni fisiche ed emotive per cui passano senza mai forzare.
Un presente girato in digitale, nel quale si avverte la tensione prima di averne conferma; un passato dai colori dolci e giovanili del 16 mm; un futuro senza certezze, che di certo ha solo due aspettative di vita diverse, non (più?) coincidenti.
L’equilibrio del film è mirabile, per come tratta la sofferenza e la felicità in profondità senza bisogno di alzare eccessivamente la voce e per come inserisce il germe dell’una nell’altra, vicendevolmente, nella maniera più sottile e più bella.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              http://www.mymovies.it/

settembre 23, 2013 at 9:55 am Lascia un commento

I FIGLI DELLA MEZZANOTTE

Bombay, 1947. Allo scoccare della mezzanotte, nell’anno in cui veniva dichiarata l’indipendenza dell’India dall’Inghilterra, nasce Shiva, figlio di una coppia benestante. Ma in ospedale un’infermiera decide di scambiare il bambino con un altro neonato, Saleem, anch’egli nato esattamente a mezzanotte, ma figlio di un mendicante della casta più umile. L’infermiera è convinta di compiere così un atto di giustizia sociale, in realtà darà solo luogo ad una catena infinita di equivoci e tragedie. E il destino dei “figli della mezzanotte” si dipanerà attraverso i decenni in parallelo con quello dell’India, diventandone metafora.
Il figli della mezzanotte è tratto dall’omonimo best seller di Salman Rushdie e l’immagine simbolo del film, più volte reiterata, è quella del fuoco d’artificio, poiché storia e Storia prendono la forma di una continua esplosione, a volte gioiosa, più spesso drammatica. Deepa Mehta, che aveva piacevolmente sorpreso pubblico e critica con la trilogia FireEarth e Water, si conferma impavida nel portare sul grande schermo le problematiche legate alla sua terra d’origine, da lei lasciata per trasferirsi in Canada, ma mai del tutto abbandonata.
La potenza e la sensualità di certe immagini – un seno nudo visto attraverso l’oblò ritagliato in un lenzuolo, un neonato intoccabile abbandonato su un telo sporco, un primo piano mefistofelico di Indira Ghandi – confermano il talento registico di un’autrice che non ha paura di piazzare la cinepresa in medias res, privando se stessa, e gli spettatori, di filtri emotivi di fronte alla vitalità di un paese fatto di contrasti e contraddizioni, oltre che di grande bellezza. I frequenti excursus nel realismo magico, legati alle apparizioni dei figli della mezzanotte che turbano i sogni ad occhi aperti di Saleem, spingono la narrazione ancora più sopra le righe, restituendo un quadro di forte impatto.
C’è molto amore e molta rabbia da parte della regista verso la propria terra, cui risparmia (cinematograficamente parlando) gli eccessi di folklore e di retorica di altre conterranee espatriate in Occidente. La sensazione per lo spettatore è quella di trovarsi in mezzo ad un fiume in piena al quale è più facile abbandonarsi che opporre resistenza. Un maggiore lavoro di selezione però avrebbe dovuto essere operato sulla sceneggiatura, che tenta di far coesistere tutte le suggestioni e le svolte del romanzo di Rushdie in un film di quasi due ore e mezza. Il risultato è talvolta schiacciante e di difficile decodificazione, soprattutto per chi non ha familiarità con la storia originale.                  http://www.mymovies.it/

settembre 23, 2013 at 9:44 am Lascia un commento

La scomparsa di Alice Creed -J Blakeson-

Thriller psicologico capace di stimolare un livello emotivo borderline che annoda sempre più allo schermo
Andreina Sirena     * * * * -
Locandina La scomparsa di Alice Creed

Due uomini – un ventenne e un quarantenne – organizzano un appartamento per il sequestro di Alice Creed, la figlia di un ricco uomo d’affari. Una volta rapita la legano mani e piedi al letto in attesa del riscatto milionario. La ragazza non sembra però così arrendevole…
Girato quasi interamente in interni e con soli tre personaggi, il film è tutt’altro che claustrofobico. La sonda psicologica che svela a poco a poco le personalità in un succedersi incalzante di colpi di scena, riesce subito a innescare un processo di proiezione e immedesimazione nello spettatore. Il momento che precede il sequestro con la preparazione dell’appartamento ha il misticismo e la sincronia di un rituale sacro e raggiunge il culmine con la copertura del capo dei carnefici e della vittima. Ha inizio una comunicazione acefala che parla più di qualsiasi sguardo. Tutti e tre nel macabro cappuccio si mascherano e si smascherano a vicenda tradendo emozioni sempre più intessute di adrenalina. Il filo psicologico è tirato fino all’orlo del baratro e vengono fuori sfumature estreme, un livello emotivo borderline che annoda sempre più allo schermo. Si respirano timori e disagi e, man mano che il bandolo si dipana, la narrazione si fa caleidoscopica e i personaggi si svelano ed evolvono, secondo dopo secondo, in combinazioni non considerate.
Gemma Arterton da agnello sacrificale impossibilitato a parlare a motore immobile che muove, genera e muta i piani. Martin Compston (che ha debuttato al cinema con Ken Loach in Sweet Sixteen), qui nei panni di Danny, da ragazzino timoroso e succube, svela presto una natura camaleontica. Eddie Marsan nelle vesti di Vic, combina magistralmente autoritarismo e fragilità. La tensione non viene data, come nella maggior parte dei thriller, da musiche tachicardiche e mannaie inaspettate ma da una vibrazione crescente, un alternarsi di speranze e minacce che mutano le combinazioni.
John Lennon diceva che la vita è quello che ti capita mentre stai facendo altri progetti. È proprio quello che crea la magia del film. Ognuno deve fare i conti continuamente con l’imprevisto, reinventare se stesso mantenendo il gioco. Lodevole il livello di interpretazione degli attori; oltre che sprofondati nella parte, diventano pienamente solidali con la sceneggiatura. Eccellente riuscita del primo lungometraggio firmato da Blakeson che al culmine della tensione riesce a distendere la trama con trovate ironiche e a riconsegnare equilibrio alla vicenda. Dunque un’opera serrata, profonda, rigorosa e armoniosa. Dove nulla stona; anzi, la colonna sonora di Marc Canham, registrata nei famosi studi di Abbey Road, e l’uso di strumenti originali come il gattam indiano, calzano a pennello.

 

settembre 21, 2013 at 11:19 am Lascia un commento

Promised Land -Gus Van Sant-

promised-land-dvd-cover

Steve Butler, con un passato trascorso in campagna, è ora un agente in carriera di una grossa compagnia, la Global, che lo invia insieme a una collega a McKinley, una cittadina rurale. Il loro compito consiste nel convincere gli abitanti a cedere i loro terreni perché vi possano avvenire trivellazioni allo scopo di ricavarne gas naturale. Si prevede che, stretti dalla morsa della crisi, molti non avranno difficoltà a cedere le loro proprietà ma il compito si presenta invece meno semplice di quanto prospettato. Anche perché entra in gioco Dustin Noble, un attivista ambientale apparentemente intenzionato a impedire il successo della compagnia per cui Butler lavora.
Sceneggiato da Matt Damon insieme a John Krasinski, Promised Land avrebbe dovuto essere il film d’esordio di Damon dietro la macchina da presa. Non è stato così a causa di precedenti impegni dell’attore che gli impedivano di seguire le fasi di preparazione e la direzione è passata a Gus Van Sant che aveva già diretto Damon nei notissimiWill Hunting – Genio ribelle e Scoprendo Forrester nonché nel meno noto Gerry. Questa premessa informativa si rende necessaria perché Promised Land è un film che va visto dimenticando chi siede sulla sedia su cui è scritto ‘regia’. Chi ha amato il Van Sant autore dei film di cui sopra ma anche (e soprattutto) il regista di Elephant, di Paranoid Park, di Last days si trova qui dinanzi ad un’altra persona. Ciò non significa che non si sia di fronte ad un’opera dal chiaro impegno civile (anche se con un colpo di scena di troppo che spinge sul pedale della sfiducia generalizzata e soprattutto generica). Un film cioè che aiuta a ricordare che in tempi di crisi globale c’è  chi cerca di fare i propri affari in modo altrettanto globale (vedi il nome dell’azienda) ai danni di persone necessitate dal bisogno di sopravvivenza.
Sono anni, quelli in cui viviamo, che avrebbero bisogno di uno Steinbeck e di un John Ford pronti a narrarli ma purtroppo questo Van Sant non ricorda né l’uno né l’altro. Manca cioè la lucida e vigile pietas (abilmente fusa con un’affilata indagine psicologica) che ha contraddistinto il suo cinema migliore. Tutto finisce con il perdersi nel filone del cinema americano politically correct, a cui manca però quello scatto che lo spinga a distinguersi da quello che altrimenti finisce con il trasformarsi in un sottogenere ricco di buoni sentimenti ma privo di incisività.

Giancarlo Zappoli  http://www.mymovies.it/

 

settembre 21, 2013 at 10:51 am Lascia un commento

Il lato positivo di David Russell ( dvd e b-ray )

 

 

settembre 6, 2013 at 10:32 am Lascia un commento


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